Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 28 febbraio 2012

Donne afghane, un problema mai risolto

di Anna Vanzan

Un articolo postato in questi giorni nella rubrica di Claudio Bertolotti (http://www.grandemedioriente.it/lexit-strategy-internazionale-alla-prova-6750) a proposito delle difficoltà della eterna fase di transizione in Afghanistan, mi induce a qualche riflessione. Bertolotti, con l'usuale competenza, scrive:

[...]la riforma della giustizia [in Afghanistan] impone una sorta di “stallo dialogico” dovuto a rigide posizioni nei confronti della questione femminile poiché qualunque discussione o proposta di riforma tende ad arenarsi di fronte al problema dei diritti delle donne, tuttora “informalmente” riconosciute come soggetti socialmente (e legalmente) subordinati e non come individui al pari degli uomini.


Bertolotti mette il dito su una piaga che pare non voglia mai rimarginarsi: le donne, in Afghanistan, sono un problema, soprattutto per sé stesse.
Poco importa che la Costituzione prevede uguali diritti per uomini e donne, se poi, nel Codice Civile, si parla ancora di tamkin (obbedienza), ovviamente dovuta dalle donne nei confronti degli uomini della famiglia, e di nushuz (disubbidienza), in presenza della quale (a discrezione totale maschile) le donne vengono precluse dall'esercizio di ogni diritto, compreso quello del mantenimento. Addurre a pretesto di queste discriminazioni il fatto che l'Afghanistan è un paese islamico e quindi deve rispettare questi limiti è privo di sostanza: lo era anche quasi un secolo fa, eppure, a fine anni '20, le donne afghane godevano di una legislazione tra le più progressiste nel mondo islamico.
Il governo afghano del post-Taleban s'è impegnato ad innalzare il livello di istruzione delle sue donne, ma, dopo 10 anni, le statistiche sono impietose, pur non rivelando fino in fondo la realtà, ovvero, l'enorme divario tra le possibilità offerte a chi vive in città e quelle non raggiungibili dalla stragrande maggioranza degli afgani, sparpagliata tra minuscoli villaggi, magari posti su impervie alture. Le donne che vivono in queste situazioni non hanno accesso all'istruzione, né alla facilitazioni sanitarie: solo il 13% di loro riceve cure prenatali e la mortalità tra le puerpere (moltissime delle quali sotto i 19 anni) si è stabilizzata su un inquietante 14%, cosa che non impedisce alle afghane di raggiungere la non invidiabile media di 6,6 figli ciascuna, uno dei tassi di fertilità più alti al mondo.

Tutto ciò ha poco a che vedere con l'islam e la shari'a, quest'ultima agitata come uno spauracchio tanto da chi vive all'interno di queste situazioni e non le vuole cambiare, quanto da molti “analisti” esterni che s'accontentano di demonizzare senza proporre alternative praticabili. Le leggi differiscono molto da un paese islamico all'altro, fattore che dimostra come esse cambino secondo i bisogni delle società.

L'Afghanistan ha necessità di nuove leggi, ma anche di supporti per implementarle. In un paese così conservatore la strada delle riforme può essere aiutata pure da leader religiosi che aderiscano a nuove interpretazioni che si contrappongano a quelle degli estremisti
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Mentre in parlamento c'è chi pensa di postporre la riforma del diritto di famiglia per non acuire i contrasti tra le parti (la solita storia: i diritti delle donne sono sempre procrastinabili e barattabili), la vita quotidiana di milioni di afghani è regolata da regole locali basate su codici di presunto onore che vittimizzano soprattutto le donne.

Dopo oltre dieci anni di sacrifici, anche da parte della comunità internazionale, bisogna che questa si attivi per promuovere un cambiamento tangibile: alle donne afghane non basta certo, quale emblema di riforma, che qualcuna di loro possa camminare per le strade di Kabul senza il burqa.

sabato 25 febbraio 2012

Guerra e dialogo in AfPak

Militari pakistani, rappresentanti della Nato e delle Forze di sicurezza afghane si sono incontrati alcuni giorni fa per risolvere i problemi conseguenti all’incidente che lo scorso 26 novembre portò alla morte di alcuni soldati di Islamabad. Da allora i rapporti tra Usa e Pakistan sono andati sempre più raffreddandosi portando alla chiusura delle frontiere per i convogli logistici necessari all’impegno militare della Coalizione a guida statunitense. La situazione si presenta ora formalmente “distesa” e la riapertura ai rifornimenti verso l’Afghanistan è a portata di mano; l’interesse è reciproco, tanto per il Pakistan – che è così riuscito a dimostrare all’opinione pubblica interna di non essere sottomesso ai capricci statunitensi e, al tempo stesso, a risolvere un’imbarazzante quanto critica chiusura degli aiuti economici di Washington – sia per gli Stati Uniti – ora più che mai intenzionati ad agevolare un processo politico volto all’uscita dal pantano afghano in cui l’impegno del Pakistan è considerato essenziale.
Nel frattempo, sul fronte politico afghano, il presidente Hamid Karzai ha dichiarato di essere finalmente riuscito a dare vita un triplice dialogo con Stati Uniti e taliban per l’avvio dei tanto desiderati – quanto pubblicizzati – colloqui negoziali tra le parti. «Ci sono stati contatti tra Stati Uniti e taliban, così come ci sono stati contatti tra governo afghano e gli stessi taliban» ha dichiarato Karzai poco prima di essere formalmente smentito dallo stesso portavoce dell’Emirato Islamico, Zabiullah Mujahid, che lo ha accusato di essere un «fantoccio nelle mani degli Stati Uniti» e, dunque, di non aver voce in capitolo.
Allora, chi parla con chi? E a quale titolo? È prassi che in fase negoziale entrambe le parti in conflitto tendano ad alzare il tiro, impegnandosi sempre più sul fronte militare per poter giungere al tavolo delle trattative con maggiori vantaggi e, quindi, maggiori pretese; ciò che però non è chiaro è se gli interlocutori siano effettivamente seduti allo stesso tavolo. Il dubbio è legittimo e in effetti, come la storia afghana tende a dimostrare, non è escluso che a giocare l’insolita partita vi siano più attori (protagonisti e comprimari) e ancor più comparse. La cosa non deve stupire: instabili equilibri, promesse non mantenute e alleanze ballerine fanno parte delle regole non scritte del «grande gioco»; tutto sta nel comprendere quelli che sono gli obiettivi finali delle parti, tralasciando quelli intermedi e secondari che, di prassi, vengono invece esaltati su tutti i fronti dalla vivace e accattivante propaganda.
Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere in contatto con i taliban; questi, interpretando l’evento come una vittoria hanno confermato l’apertura di un proprio ufficio di rappresentanza in Qatar; l’Afghanistan, tenuto all’oscuro, si è subito dichiarato contrario all’iniziativa, ma solo fin quando gli americani non lo hanno coinvolto direttamente; i taliban, convinti di essere a un passo dall’accesso al potere, rifiutano di dialogare con un governo che considerano illegittimo ma, nel frattempo, siedono a più di un tavolo con i membri dell’High Peace Council e dei servizi afghani (il che, implicitamente, significa riconoscerne un ruolo) e, cosa più importante, avranno un loro rappresentante in Qatar, un interlocutore fisico, rappresentativo e, fattore non secondario, definito. Insomma, nulla di sorprendente a ben vedere, tutto sta nel guardare il dramma afghano nella giusta prospettiva: la prospettiva del “parziale” disimpegno militare internazionale, per quanto gli Stati Uniti siano ben avviati verso la strategic partnership che consentirà loro di mantenere basi strategiche in Afghanistan.
Una presenza a lungo termine, quella statunitense, di cui si è discusso nel corso del vertice trilaterale Afghanistan-Pakistan-Iran appena concluso; un incontro, tra i presidenti dei tre paesi, che ha dimostrato ancora una volta quanto gli interessi regionali spingano nella direzione opposta rispetto a quelli strategici degli attori esterni (Usa in primis). Il Pakistan sosterrà formalmente una strategia di uscita dal conflitto attraverso un’iniziativa di pace solamente se questa sarà a guida afghana riuscendo così ad accontentare almeno due delle tre parti, Washington e Kabul. I taliban, prima di esprimersi favorevolmente hanno però chiesto una prova della buona fede statunitense: la liberazione dei compagni detenuti a Guantanamo; al momento però tutto tace, per quanto non è escluso che informalmente qualcosa possa andare nella direzione desiderata dall’Emirato Islamico.
I taliban sono stanchi di combattere, questo è verosimile, ma sono ben lontani dal pensare di fermarsi proprio adesso che avvertono la possibilità di ottenere grandi soddisfazioni, con un Pakistan compiacente alle spalle e risultati concreti sul campo di battaglia; questo gli Stati Uniti lo hanno capito? La risposta a questo domanda non è poi così scontata guardando alla confusa tattica del “combattere e negoziare” con i taliban che pare riflettere un disegno strategico altalenante nei confronti del Pakistan: ora «amico dei terroristi», ora «alleato necessario». E anche il Pakistan pare aver ben compreso l’utilità del tenere sotto pressione Washington; a parole – e la cosa non è trascurabile – Islamabad sosterrà l’Iran in caso di azioni militari da parte di forze straniere, almeno stando a quanto dichiarato dal media pakistano Geo secondo il quale il presidente pakistano Asif Ali Zardari avrebbe promesso all’omologo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, il proprio «appoggio qualora Teheran dovesse subire attacchi dall’esterno».
Una guerra di parole che non aiuterà certamente l’Afghanistan, di fatto in guerra già da troppo tempo.

di Claudio Bertolotti

domenica 12 febbraio 2012

Diplomazia e propaganda

Anche i taliban si interessano agli sviluppi di politica interna e relazioni internazionali. E infatti non hanno perso tempo giungendo a dichiarare formale vittoria attraverso il loro sito internet.

L’Emirato Islamico dell’Afghanistan, affermano i taliban, «ha dimostrato al mondo intero di essere uno Stato funzionale ed efficace, tanto sul piano politico quanto su quello militare». E proprio questa presunta capacità li indurrebbe a «non accettare imposizioni provenienti da potenze che, dopo una guerra più che decennale, hanno dovuto cambiare politica strategica ammettendo l’impossibilità di poter assoggettare gli afghani».

Quello che emerge dalle parole dei taliban – che si definiscono «non fenomeno tribale ma movimento ideologico e nazionale in grado di imporre e gestire un processo politico definito e pragmatico – è l’orgoglio di una cultura indipendente, poco propensa a soluzioni imposte e ben decisa ad affrontare il problema anche a costo di pesanti sacrifici» pur di giungere a soluzioni di compromesso che apriranno la strada, con molta probabilità, ad altre rivendicazioni e pretese.

Nel frattempo, è tornato a far parlare di sé anche un altro attore storico delle passate e presenti battaglie afghane, Gulbuddin Hekmatyar, il quale, in conclusione della propria analisi, ha sentenziato il fallimento della guerra statunitense in Afghanistan e l’illegittimità della Strategic Partnership Stati Uniti-Afghanistan.