Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 26 novembre 2013

Missione ISAF - Il conto salato di un ritiro preventivo dall'Afghanistan

 (Perche' #M5S e #SEL sbagliano a chiedere il ritiro dei soldati dall'Afghanistan?)
di C. Bertolotti e F. Giumelli 

In occasione del dibattito sul rinnovo del finanziamento alle missioni, sono state presentate due mozioni di minoranza, Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) e Movimento 5 Stelle (M5s), che ripropongono la tradizionale richiesta del ritiro immediato del contingente italiano. Benché la posizione del governo e della maggioranza parlamentare sia del tutto diversa, queste mozioni alimentano nell'opinione pubblica aspettative e opinioni irrealistiche e forse anche politicamente dannose, che potrebbero complicare l'attuazione della strategia di progressivo disimpegno attualmente in corso.
Il tutto avviene a dispetto degli impegni presi a livello internazionale, della politica estera in generale e degli accordi bilaterali Italia-Afghanistan in particolare.

Caro prezzo
Mentre la Camera dei deputati sta discutendo il rifinanziamento delle missioni internazionali fino al 2013, questa proposta appare interessante se non fosse che l’Italia ha già annunciato il suo ritiro dall’impegno “operativo” dopo le elezioni per il successore del presidente Hamid Karzai.
Il ritiro, previsto per il dicembre 2014, si inserisce in un quadro già concordato con gli alleati Nato, anch'essi in fase di disimpegno che prevede già la riduzione del contingente italiano con il rientro di 486 militari italiani a dicembre. Anticipando il ritiro solamente di alcuni mesi si dovrebbe pagare un prezzo molto alto.
Isaf (ad oggi 87 mila unità) vede la partecipazione di quasi cinquanta nazioni. Dal 2007, la Nato ha diviso la presenza di Isaf in sei comandi regionali al fine di contribuire al ristabilimento delle istituzioni statali e sostenere i circa 27 Provincial Reconstruction Team, la cui attività riguarda ad esempio la costruzione di strade, scuole e ospedali. L’Italia è responsabile della Comando occidentale, al confine con Iran e Turkmenistan, e l’intera area di competenza italiana è composta da quattro province.

Transizione
In previsione di concludere la fase “combat” entro il 2014, i comandi regionali hanno iniziato la transizione dei poteri alle forze di sicurezza locali. Il piano è diviso in cinque tranche e i tremila soldati italiani hanno già ceduto la responsabilità della sicuezza dell’87% della popolazione locale e dell’80% del territorio che controllavano nel 2010 (che dovrebbe diventare quasi il 100% entro fine anno).
Questo processo di responsabilizzazione delle autorità locali è stato voluto principalmente dall’amministrazione Obama, che nel 2009 ha deciso di inviare 33 mila nuove truppe in Afghanistan e allo stesso tempo di programmare il ritiro della quasi totalità del contingente americano tra il 2011 e dicembre 2014.
Nel 2015 dovrebbe prendere il via la missione Resolute Support della Nato, un impegno militare limitato e concentrato su addestramento ed equipaggiamento delle forze afgane - ma sufficiente per intervenire a loro sostegno - con il mantenimento di nove basi e l’istituzione di cinque comandi assegnati a Stati Uniti (aree meridionali e orientali), Germania (area settentrionale), Italia (area occidentale) e Turchia (distretto di Kabul). I dettagli della missione sono proprio al centro di colloqui fra l’amministrazione americana ed il governo di Hamid Karzai nell’ambito di un programma strategico pensato sul piano della politica estera. L’opposto di quello che potrebbe discutere il Parlamento italiano.

Sfide
Andare via in questo momento presenterebbe tre sfide cruciali. In primo luogo metterebbe in discussione la credibilità dell’Italia nell’Alleanza atlantica. Roma ha partecipato alla missione fin dall’inizio ed è oggi uno dei paesi più rilevanti in Afghanistan. Violare gli accordi bilaterali con lo stesso governo di Kabul sarebbe un duro colpo dato ai nostri alleati.
Vi è poi una sfida tattica. Che cosa accadrebbe alla transizione in corso nelle province ancora controllate anche dalle forze italiane? Queste province hanno tuttora forti problemi legati alla sicurezza. Abbandonarle significa fare una cortesia ai gruppi di opposizione armata, vanificando gli sforzi fatti negli ultimi anni.
La terza sfida riguarda la tempistica del ritiro. Per portare a casa i nostri militari non basta comprare loro un biglietto aereo. Il ritiro coinvolgerebbe uomini ed equipaggiamenti accumulati in dodici anni di missione. Tutto questo deve essere fatto in sicurezza, perché attaccare contingenti militari che stanno facendo le valigie sarebbe un ottimo colpo per le forze che intendono destabilizzare la transizione e la legittimità del governo centrale.
In queste condizioni è difficile pensare che esistano i tempi per completare un ritiro prima della data prefissata.
Le forze di sicurezza afghane registrano oggi in media cento caduti al giorno. Nel breve termine, questa situazione lascia presagire uno scenario molto più prossimo a un collasso del governo di Kabul che non a una condizione di stallo dinamico, così come attualmente garantito dalla presenza di truppe straniere sul suolo afghano.Gli Stati Uniti hanno studiato un piano di cinque anni per lasciare l’Afghanistan, la proposta presentata da M5s e Sel lo vorrebbe fare in poche settimane. M5s e Sel propongono di andarsene per risparmiare alcuni milioni di euro (molti meno dei 124,5 stanziati dal decreto per la missione Isaf ai quali andrebbero sottratti quelli per il ritiro), ma al prezzo di costi umani, sociali e politici di valore estremamente superiore al risparmio economico.
A pagare l’immaturità di questa eventuale scelta sarebbero gli afghani e la comunità internazionale. Le truppe straniere - e tra queste anche l’Italia - dovrebbero lasciare l’Afghanistan dopo aver contribuito a creare adeguate forze di sicurezza locali in grado di garantire la prosecuzione dei progetti avviati e gestire la conflittualità.


Francesco Giumelli è assistant professor presso il Departmento di Relazioni internazionali e organizzazione internazionale dell’Università di Groningen. Al momento lavora sull’efficacia delle sanzioni dell’Unione Europea e sulle missioni internazionali dell’Unione Europea.
Claudio Bertolotti (Ph.D) analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi strategici e docente di "società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo", è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. Opinionista, autore di saggi, analisi e articoli di approfondimento sul conflitto afghano. (articolo pubblicato su Affari Internazionali - IAI)

venerdì 22 novembre 2013

I risultati della minaccia asimmetrica in Afghanistan

Gli attacchi suicidi: successo o fallimento?

disponibile in edicola

di Claudio Bertolotti 
 
Abstract
Dal 2001, il fenomeno degli attacchi suicidi in Afghanistan si è evoluto sui piani tecnico e militare imponendosi come minaccia in tutto il Paese. Esistono più tecniche classificabili come suicide - comprese le cosiddette green on blue (azioni condotte da soggetti appartenenti alle Afghan National Security Forces - ANSF); ai fini dello studio si è tenuto conto solo di quelle condotte con l’impiego di equipaggiamenti esplosivi IED (Improvised Explosive Devices).
L’argomento qui presentato è frutto di una ricerca analitica basata su fonti complementari: da un lato l’attività di studio sul campo durata circa due anni, dall’altro lato la raccolta e l’analisi delle informazioni open source e di quelle classificate rese disponibili attraverso l’Afghan War Diary (AWD) di Wikileaks.
L’approccio teorico adottato si basa sulla definizione di «attacco suicida» come azione offensiva, non-convenzionale e inserita in un contesto di guerra asimmetrica, che per propria natura prevede la morte consapevole del combattente-suicida e le cui conseguenze si ripercuotono a livello politico, strategico, operativo, tattico e psicologico.
Il combattente-suicida afghano - al di là di implicazioni ideologiche e culturali - quale contributo a livello strategico, operativo e tattico riesce a fornire? Sulla base dell’attività di ricerca, a seguito dell’analisi dei dati costituenti il database ASA (Afghanistan Suicide Attacks) creato dall’Autore relativo a 1.003 attacchi registrati dal 2001 al 2012, è stato possibile rispondere alla domanda portando un po’ di luce sull’evoluzione tecnica e sul ruolo dello “shahid” afghano.


THE RESULTS OF THE ASYMMETRIC THREAT IN AFGHANISTAN
Suicide attacks: failure or success?
 
Since 2001, the phenomenon of suicide attacks in Afghanistan has enhanced its technical and military plans, so becoming a threat throughout the country. There are many techniques that can be classified as suicide - including the so-called green on blue (actions carried out by individuals belonging to the Afghan National Security Forces - ANSF). For the purpose of this study, only those carried out with the use of Improvised Explosive Devices (IED) have been taken into account. The argument presented here is the result of an analytical research based on various sources: on the one hand, the activities of study on the field which lasted about two years and,on the other hand, the collection and analysis of both open source and classified information, which was made available through the Afghan War Diary (AWD), Wikileaks. The theoretical approach adopted is based on the definition of 'suicide attack' as an offensive and unconventional action placed in a context of asymmetric warfare, which by its nature involves the conscious death of the fighter and whose consequences have repercussions on the political, strategic, operational, tactical and psychological level. What contribution on the strategic, operational and tactical level is the Afghan suicide fighter - beyond ideological and cultural implications- able to
provide? On the basis of the research activity and of the analysis of the data which make up the Afghanistan Suicide Attacks database - created by the author and relevant to 1 003 attacks recorded from 2001 to 2012 - was it possible to find an answer to the question,shedding some light on the technical evolution and on the role of the Afghan “shahid”.

mercoledì 20 novembre 2013

CeMiSS - The taliban approach: between battlefield and peace talks


by Claudio Bertolotti

Following the examination reported on CeMiSS Quarterly Summer n. 2/2013, according to the Afghan Independent Election Commission (IEC), the candidates interested to participate to the Afghan presidential election running (planned in April 2014) are required to register between 16 September and 06 October. Although (at 8th of September) no party has yet formally announced names of presidential nominees, several names of potential contenders have emerged. These include:
• Umer Daudzai, an ethnic Pashtun, currently Afghan ambassador to Pakistan.
• Abdullah Abdullah (who ran against President Karzai in the 2009 presidential election), former Afghan foreign minister and current chief of the National Coalition of Afghanistan party.
• Abdul Rasool Sayyaf, former Mujahedeen commander and at present chief of Islamic Dawah Organization of Afghanistan.
Several local sources reported President Karzai urged Afghan political parties to support Sayyaf.
Karzai didn’t confirm his support to Karzai.
Hezb-i-Islami Afghanistan (HIA) would field a presidential candidate if their demands were endorsed.
Gulbuddin Hekmatyar, leader of the party, offered the Kabul government a two-point proposal for his group’s participation in the 2014 presidential election:
• a complete pull out of foreign troops and
• vote transparency.
What is important to underline is that while HIA’s participation is welcomed but, more important, it is the Taliban (Mullah Omar’s group) that need to be co-opted. In April, President Karzai affirmed that Taliban leader Mullah Mohammad Omar could officially run for the presidency next year on the condition that the group broke ties with al-Qaeda and renounced violence; but in August Mullah Omar himself stated he will not participate to electoral competition.
Finally, it is reported a limited participation of women in the election process, (Pajhwok). The main issues restraining women participation include lack of access to remote areas due to weather constraints, an insufficient number of mobile voter registration centers, and the presence of armed opposition groups discouraging residents from obtaining voter cards.

Security viewpoint
Afghan President Hamid Karzai met the Prime Minister Nawaz Sharif over the stalled peace process. Karzai urged Pakistan to facilitate peace talks by providing opportunities for contacts between the Taliban and the Afghan High Peace Council. Sharif assured Karzai of Pakistan’s support for peace and reconciliation in Afghanistan, a peace process that – according to Pakistan recommendations – has to be inclusive, Afghan-owned and Afghan-led. However it is uncertain whether Sharif wields sufficient influence to convince the Taliban to discuss with Afghan President Karzai.
During the visit, President Karzai also requested the release of high-ranking Taliban detainees held in Pakistan who might act as interlocutors in the peace negotiations, as Mullah Abdul Ghani Baradar (detained in Karachi in 2010).
In addition, Islamabad and Washington are weighing the option of shifting the Taliban's political office from Qatar to another country in a bid to revive the stalled reconciliation process in Afghanistan. The option came under discussion during US Secretary of State John Kerry's recent visit to Islamabad, where the two sides explored a variety of ways of breaking the deadlock in peace negotiations.
Furthermore, Afghanistan’s second Vice President Mohammad Karim Khalili visited India with a high level ministerial delegation on 20 August in order to discuss security related issues as the NATO troop withdrawal draw near. The meeting was mainly focused on enhanced military cooperation.
Afghan army and police officers are trained in Indian academies and India is planning to supply Afghanistan with vehicles and helicopters.
President Karzai has created a new team of high-profile negotiators in order to solve the stalled negotiations between Afghanistan and US. The new negotiation committee, consisting of the president’s national security adviser Rangin Dadfar Spanta, former Finance Minister Ashraf Ghani Ahmadizai and Foreign Minister Zalmay Rasul, is expected to facilitate the process toward an agreement. The new team of negotiators will discuss role, shape and legal status of US military forces and civilian trainers in post-2014 mission.
A recent increase in the activities of militants from Central Asia, such as the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), in northern Afghanistan indicates that they intend to take advantage of the security vacuum that may ensue post-2014. The magnitude of recent insurgents attacks in northern Afghanistan shows an effort to gain a country-wide presence ahead of the drawdown of NATO forces. Central Asian militants fit into this setting as experienced and trusted allies for the Taliban who have some affinity to Tajik and Uzbek communities in the area.

Latest news (on August), in brief:
• Ghazni, Kandahar, Wardak and Zabul: provincial governors met to discuss improvements to one of the most volatile parts of Afghanistan’s highway system, the Kabul-Kandahar highway.
• Herat province: local authorities reported that clashes between the security forces and Taliban militants on the Kandahar-Herat highway killed at least 83 people including eleven security forces and 72 militants.
• Farah province: a bomb exploded in near a vehicle carrying the provincial commander of the National Directorate of Security (NDS) Abdul Samada, killing and wounding civilian people and security personnel.

Brief analysis
According to a recent United Nations Mission in Afghanistan (UNAMA) report,bombs and improvised explosive devices (IEDs) are the main means of killing. Significant civilian deaths also occurred during the fighting between security forces (both foreign and local) and the Taliban. Furthermore, the total civilian casualties in the first half of 2013 increased 23 per cent compared to the same period in 2012. The number of children killed rose about 30 per cent in the same period.This increase in civilian causalities raises the question whether the Afghan forces will be able to contrast the Taliban insurgency in post-2014 Afghanistan.The stepped-up transition of security responsibilities from ISAF forces to Afghan forces and the closure of international forces’ bases was met with augmented attacks by opposition armed groups adding mainly at checkpoints, on strategic highways, secondary lines of communication, in some areas that had been transitioned and in districts bordering neighboring countries.Furthermore we must consider, on one hand, the “green on blue” attacks’ increasing (a direct threat to MAT, PAT and OCCAT advisers and trainers) and, on the other hand, the reduction of the ANSF’s terrain control capability; the last one as consequence of an increased military and political capacity of the armed opposition groups – in particular in rural and peripheral areas.
The sum of all these factors shows the ANSF limits, underlining the risk of inability to contrast the armed opposition groups expansion and, consequentially, the peril of instability in post-2014 Afghanistan, when foreign combat troops will leave the battlefield “formally”.

lunedì 11 novembre 2013

Afghanistan. L'accordo bilaterale tra formalità e opportunità

di Claudio Bertolotti

(Articolo pubblicato su osservatorioIraq)
 
Stati Uniti e Afghanistan potrebbero concludere in tempi brevi, sebbene in maniera parziale, il Bilateral Security Agreement che sancirebbe formalmente la presenza militare USA (e Nato) nell’Afghanistan post-2014. Molti i punti in disaccordo tra le parti in causa: il principale rimane la questione dell’immunità di cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) godere le truppe di Washington su territorio afgano. Una questione delicata che, sul piano teorico e formale, potrebbe limitare, se non del tutto escludere, la presenza militare al termine del mandato dell’ONU.Si tratta infatti di una tematica presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno e mezzo: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afgane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità. 
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sulla possibilità di una presenza militare statunitense su territorio afgano, dall’altro lato non vi è una visione comune sui termini che dovrebbero definire lo Status of Forces Agreement(SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afgane. 
Quella di Washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnati contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. È però opportuno sottolineare che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
Al tempo stesso non stupisce la posizione di Karzai, in cerca di sostegno da parte dell’opinione pubblica afgana e dunque spinto ad assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei confronti di un soggetto – gli Stati Uniti e con essi gli alleati della Nato – il cui favore popolare si è progressivamente eroso in maniera significativa.
 Ciò che Karzai vuole evitare, adottando un politica apertamente refrattaria alla concessione dell’immunità – di fronte al proprio popolo e al fine di non esporsi all’azione della propaganda avversaria – è l’accusa di rinuncia alla sovranità nazionale. 
Dunque una scelta strategica dettata dall’opportunità politica del momento, in cui la presenza straniera viene rappresentata, e sempre più percepita, come occupazione militare, nonostante la significativa riduzione dei contingenti militari e il formale processo di transizione (“tranche five”stage, giugno 2014).
La questione passa allora in mano al governo afgano che, per ragioni di opportunità pratica lontane dall’essere trasparenti e al di fuori del mandato costituzionale, rimanda la decisione a una costituenda assemblea tradizionale, la Loya Jirga. Da questo gioco delle parti il parlamento afgano, legittimo attore, viene dunque escluso per decisione del presidente. Scontate, quanto immediate, le proteste formali di alcuni candidati alla prossima competizione presidenziale, Abdullah Abdullah – primo antagonista di Karzai – in testa.
E allora, data la situazione, quale potrebbe essere l’eventualità più pericolosa nel caso in cui Washington e Kabul non giungessero a una soluzione di compromesso?
L’ipotesi più plausibile è quella del ripetersi di uno scenario ben noto: quello iracheno. La mancanza di un accordo tra i governi statunitense e iracheno comportò il ritiro completo delle forze di combattimento americane; oggi l’Iraq è stravolto da uno stato di guerra cronico dove le forze di sicurezza locali non sono in grado di contenere, né di contrastare, un fenomeno insurrezionale sempre più capace e aggressivo.
Ma l’Afghanistan, con le dovute precauzioni, è pur sempre il paese delle contraddizioni e dei compromessi.
Ciò che è indubbio è il fatto che un Afghanistan privato delle forze di sicurezza internazionali vedrebbe l’esercito e la polizia afgani in seria difficoltà nel tentativo di contrasto all’insurrezione dei gruppi di opposizione armata. E comunque sia, anche la ridotta presenza di istruttori e consiglieri statunitensi e della Nato poco potrebbe fare, sul piano operativo, a sostegno delle forze di sicurezza afgane. Nonostante sul piano politico vi siano le più ampie rassicurazioni sulle capacità dello strumento militare di Kabul, ormai pochi sono convinti che ciò possa concretizzarsi in un risultato favorevole, se non attraverso un processo politico-negoziale orientato al compromesso; un compromesso che, con il trascorrere del tempo, tende sempre più a spostare l’asse delle concessioni a favore del fronte taliban (e dell’insurrezione armata in generale).
Il 18 giugno dell’anno prossimo verrà formalizzato ufficialmente il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afgane.
Ma, è noto – nonostante i proclami ufficiali – che l’esercito afgano non è pronto, non ha copertura né capacità aerea, manca di capacità intelligence e logistica, sia sul piano operativo che su quello tattico, è insufficientemente integrato e necessita di equipaggiamenti per le attività di contrasto alla minaccia Ied (Improvised explosive devices – ordigni esplosivi improvvisati). Inoltre, come afferma il comandante della missione ISAF, il generale Joseph F. Dunford, tra i suoi membri è elevato il livello di tossicodipendenza. 
Nel complesso, sono stati spesi miliardi di euro, migliaia di vite umane per una guerra che non è stata vinta; comunque sia, l’impegno della transizione è stato preso anni fa: oggi, pronte o meno, le forze di sicurezza afgane dovranno assumersi l’onere della sicurezza del paese. I timori sono tanti, su entrambi i fronti, e il prezzo da pagare è già stato messo in conto da parte di tutti i soggetti interessati.
Sull’altro versante, i gruppi di opposizione armata stanno aspettando proprio il 18 giugno per raccogliere i frutti di una guerra combattuta che, allora, sarà nel suo tredicesimo anno. 
(vai all'articolo su OsservatorioIraq)

lunedì 28 ottobre 2013

CeMiSS - Afghanistan: la fragile situazione politica e l’incognita di un processo di transizione accelerato


di Claudio Bertolotti
In un messaggio rilasciato prima della festa dell’Eid ul-Fitr che segna la fine del mese santo del Ramadan, il capo dei taliban, il mullah Mohammad Omar, ha dichiarato che l’Emirato islamico dell’Afghanistan è aperto al dialogo volto ai negoziati di pace, imputando Stati Uniti e governo afghano la responsabilità di aver provocato una situazione di stallo nel processo negoziale (...).
Il leader dei taliban ha affermato che i mujaheddin non sono interessati a prendere il controllo dell’intero Paese, quanto piuttosto a cercare di mettere in essere un “governo afghano inclusivo e basato sui principi islamici”. Un atteggiamento che, se da un lato potrebbe suggerire un significativo cambio di politica da parte dei taliban, dall’altro dimostrerebbe quanto i taliban stessi siano consapevoli dell’amplificazione del messaggio attraverso gli strumenti di comunicazione di massa e delle ripercussioni a livello di opinione pubblica globale; motivo in più, quest’ultimo, per manifestare un atteggiamento conciliante e possibilista.
Un elemento di novità, nel discorso del mullah Omar, è il riferimento alla “necessaria educazione moderna”, che potrebbe suggerire un cambiamento nella politica del gruppo di opposizione: “Al fine di proteggere noi stessi da scarsità e difficoltà, la nostra giovane generazione deve armarsi con l’educazione siareligiosa, sia moderna, perché l’istruzione moderna è un bisogno fondamentale di ogni società contemporanea”. Tuttavia, nonostante le osservazioni concilianti, il mullah Omar ha avvertito che, indipendentemente dal risultato dei colloqui di pace, i taliban continueranno a opporsi alla firma dell’accordo bilaterale di sicurezza tra Afghanistan e Stati Uniti che assicurerebbe la presenza di truppe straniere in Afghanistan dopo il 2014, momento in cui le forze di combattimento della Coalizione dovrebbero ritirarsi dal paese. Inoltre, il mullah Omar ha esortato le forze afghane a colpire le truppe straniere, i funzionari del governo afghano e le sue truppe che collaborano con quelle di Isaf. Infine, il capo dei taliban, ha aggiunto che il suo gruppo non parteciperà alle elezioni del prossimo anno, invitando i cittadini afghani ad astenersi dal prendere parte al processo elettorale, definito una “perdita di tempo” e “manipolato dagli Stati Uniti”.
In riferimento alla possibilità di dialogo tra le parti, il fratello del presidente afghano, Abdul Qayum Karzai, e alcuni i funzionari dell’Afghan High Peace Council hanno riferito di aver preso parte a un colloquio informale con i taliban a Dubai, (Khaama Press). Le due parti si sarebbero incontrate per discutere la possibilità di riavvio dei dialoghi negoziali interrotti dopo l’incidente diplomatico avvenuto in Qatar lo scorso giugno. Questo dopo che il presidente Karzai ha chiesto ai taliban di aderire al processo di pace, aprendo alla possibilità di apertura di un loro ufficio in Afghanistan...(vai all'articolo completo)

vai all'articolo e scarica l'intera pubblicazione
Osservatorio Strategico CeMiSS (Ottobre 6/2013, pp. 77-80)

domenica 13 ottobre 2013

Claudio Bertolotti. Un cuneese chiamato a “riscrivere” la dottrina della Nato a Brussels

da targatocn

da cuneooggi.it  

da piemonteoggi.it

Team internazionale di esperti impegnati nello studio e nella redazione della linea guida che dovrà aiutare i nostri soldati impegnati in operazioni all’estero. 


Si è conclusa l'11 ottobre, la conferenza presso il comando generale della NATO incentrata sull’aspetto umano dei contemporanei conflitti armati (dall’Afghanistan, alla Siria passando per il Libano). Un lavoro di equipe che ha visto impegnati fianco a fianco esperti e luminari di alcune tra le più prestigiose università statunitensi e britanniche, nonchè specialisti militari del centro di eccellenza “Humint” (Human intelligence) della Nato di Oradea (Romania) diretto dal colonnello Razvadan Sordu. Tra gli aspetti maggiormente approfonditi, la ricerca di una linea guida comune a tutti i paesi aderenti all’Alleanza atlantica sul corretto approccio culturale – cross-cultural communication strategy.

Claudio Bertolotti, cuneese classe 1975, è l’unico italiano chiamato a far parte del team internazionale di esperti impegnati nello studio e nella redazione della linea guida che dovrà aiutare i nostri soldati impegnati in operazioni all’estero, aumentandone così la sicurezza personale e le possibilità di raggiungere tutti gli obiettivi delle missioni che saranno chiamati a svolgere in aree di crisi, le guerre moderne cosiddette asimmetriche. Nel dettaglio, la finalità del progetto è la limitazione delle azioni militari convenzionali sostituite da un approccio “morbido”, basato sul dialogo; un approccio innovativo che Bertolotti ha voluto definire “smart power”, in contrapposizione all’uso della forza militare. Il contributo di pensiero di Bertolotti ha ricevuto il plauso generale e un vivo apprezzamento da parte della stessa Nato che nelle prossime settimane renderà accessibile a tutto il pubblico la versione “non classificata” della pubblicazione dal titolo Human Aspects of the Operational Environment. 

Claudio Bertolotti, fondatore di Afghanistan Sguardi e Analisi, già capo sezione contro-intelligence della Nato in Afghanistan, direttore di ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici, responsabile dell’Osservatorio strategico “teatro afghano” per il Ministero della Difesa, ha introdotto l’insegnamento di “corretto approccio socio-culturale” per il personale militare italiano destinato all’impiego in Afghanistan. Laureato in Storia contemporanea, specializzato in Sociologia dell’Islam, e dottore di ricerca in Sociologia e Scienza Politica, ha all’attivo numerosi articoli scientifici, saggi e libri e ha collaborato, e collabora, con media locali e nazionali. È stato candidato alla camera per il movimento FARE Per fermare il declino.

(articolo originale su targatocn)

mercoledì 25 settembre 2013

CeMiSS - Uno sguardo all’incerto processo negoziale afghano

CeMiSS n.5/2013
Osservatorio Strategico
Rubrica "Sotto la Lente", pp. 79-82
Uno sguardo all’incerto processo negoziale afghano

L’empasse dei colloqui negoziali afghani, conseguente alle modalità di apertura dell’ufficio “politico” dei taliban a Doha (Qatar), ha indotto molti analisti a chiedersi se non si sia trattato di un processo deliberatamente sabotato, piuttosto che di mala gestione dei rapporti formali e informali tra le parti. In un attimo l’opinione pubblica globale è passata da un tiepido ottimismo a un freddo disorientamento; i taliban e il loro Emirato islamico, dal canto loro, hanno ottenuto un’“imprevista”, quanto conveniente, attenzione mediatica internazionale (alla cerimonia di apertura dell’ufficio i rappresentanti taliban sono stati sotto i riflettori mediatici, il taglio di nastri e l’appello lanciato dai taliban alla Comunità internazionale per cooperare sono stati ripresi da importanti emittenti televisive): in estrema sintesi, si può parlare di «successo mediatico e di immagine» per i taliban, di risultato soddisfacente per il governo afghano - mai troppo appassionato all’opzione dell’ufficio “politico” dell’emirato taliban di Doha sostenuto dagli Stati Uniti -, di esplicito fallimento della strategia diplomatica statunitense e della mediazione del Qatar.
«Business as usual» in Qatar?... (vai all'articolo completo)

domenica 22 settembre 2013

NEWS The Deaths of Afghans Civilian Fatalities in Afghanistan, 2001–2012

NEWS
 
Si segnala l'inserimento nella sezione RESEARCH DATABASE, nella colonna di destra, l'inserimento del link al Database reso disponibile online da The Nation:

Qui di seguito il link alla guida per l'utilizzo del format online e per l'accesso ai dati

lunedì 16 settembre 2013

ATTACCHI SUICIDI IN AFGHANISTAN TRA SUCCESSO E FALLIMENTO. UNA TRIPLICE LETTURA DEL FENOMENO

Un approccio innovativo (per non dire rivoluzionario) alla lettura degli effetti e delle conseguenze delle minacce asimmetriche del contemporaneo campo di battaglia (dall'Afghanistan alla Siria, passando per l'Iraq).

Articolo presentato in occasione del Convegno annuale SISP 2012 e pubblicato sulla rivista accademica "IL POLITICO (Univ. Pavia, Italy) 2013, anno LXXVIII, n. 1, pp. 142-170.
buona lettura

Abstract - During the last decade, Armed opposition groups began to employ a new tactic on the Afghan battlefield: the suicide attack, a military technique based on a political strategy.
According to the Author’s data-base (1003 actions during the period 2001-2012),suicide attacks has augmented progressively.
From single cases in 2001 and 2002, attacks increased by an order of magnitude; from 2008 to 2012, while the total number of attacks has decreased marginally, it remains at a high level. However, while the boost in attacks in 2005-2007 represents a concern, a greater reason for concern is the rise of available suicide bombers recorded in 2008-2011.
May we conclude that it’s a successful technique or not?Author of the article proposes a new approach to data analysis, the «triple way to read method: Actions-Events-Subjects».
Thanks to this innovative process it is now possible understand new trends and developments of the Afghan phenomenon, analyzing, furthermore, direct and indirect results obtained on strategic, operational and tactical levels.

Introduzione - L’argomento affrontato in questo articolo è basato su una ricerca analitica che si è alimentata da fonti complementari: da un lato l’attività di ricerca sul campo durata circa due anni – avviata dall’Autore attraverso la “privilegiata” posizione di caposezione counter-intelligence e sicurezza della missione Isaf a Kabul nei periodi 2005-06 e 2007-08 –, dall’altro lato la raccolta e l’analisi dei dati e delle informazioni open source e di quelle classificate rese disponibili attraverso l’Afghan War Diary di Wikileaks – materiale rappresentato da tutti i dettagliati report tattici (in prevalenza Intrep – intelligence report – e Increp – incident report) prodotti dalle forze di sicurezza della Coalizione militare.

giovedì 12 settembre 2013

CONVEGNO ANNUALE SISP 2013 - La propaganda mediatica dei gruppi di opposizione armata: il caso della strategia comunicativa dei taliban afghani


Claudio Bertolotti ne perlerà il 13 settembre all'annuale convegno della 
SISP (Società Italiana di Scienza Politica) che si svolgerà a Firenze
presso il Polo Universitario delle Scienze Sociali, via delle Pandette, 32, edificio D6/104.
Ore 09.00-10.45
L'invito è aperto a tutti

lunedì 26 agosto 2013

Oltre l'Afghanistan... Siria: cosa c'è dietro all’attacco chimico di Damasco?

di Claudio Bertolotti 

Non posso nascondere la mia preoccupazione in merito ai recenti sviluppi "siriani" e alla volontà tutta statunitense di punire - a prescindere da oggettive responsabilità - il regime del presidente della Siria Bashar al-Assad, sostenendo (in)direttamente i gruppi di opposizione armata siriani, tra i quali radicali jihadisti stranieri e reduci delle guerre di Iraq, Afghanistan, Libia, ecc... Interessi politici di parte e un inquietante approccio sbrigativo lasciano trasparire i pericoli di un intervento militare in Siria; detto in altri termini, il pericolo di una guerra che potrebbe allargarsi a livello regionale (e oltre) provocando migliaia di morti. Ripropongo l'aggiornamento di pensiero già espresso in altra sede alcune settimane fa, riconfermando ancora una volta la mia totale avversione all'intervento armato unilaterale degli Stati Uniti ai danni della Siria (pronto invece a discutere l'opportunità di un impegno anche militare contro quelle forze - governative o di opposizione - che si fossero dimostrate responsabili dell'utilizzo di armi chimiche).


Mi occupo prevalentemente di guerra afghana; oggi parlerò di un'altra guerra, quella siriana. Una guerra civile che, iniziata con una protesta anti-governativa nel marzo del 2011, ha provocato la morte di 100.000 persone e la fuga di oltre un milione di civili.  La guerra in Siria è in parte combattuta da gruppi di opposizione armata siriani, sebbene sia accertata una significativa componente di ribelli stranieri e proprio su questi ultimi potrebbe cadere il sospetto di aver utilizzato contro inermi civili (tra cui donne e bambini) il gas nervino. È di alcuni mesi fa la notizia dell’assenza di prove nell’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Alcune testimonianze raccolte dagli ispettori delle Nazioni Unite tra la popolazione civile e le stesse vittime hanno già in passato confermato la mano dei ribelli, e non del regime siriano di Bashar al-Assad, dietro il possibile utilizzo del gas nervino Sarin. Non si tratta di un’informazione non controllata o parziale, delle tante che si sono alternate sul web e successivamente riprese dai media nazionali e internazionali, bensì  l’ammissione di un alto diplomatico delle Nazioni Unite (Reuters, The Washington Times).
Carla del Ponte, membro della Commissione internazionale indipendente d'inchiesta dell’Onu sulla Siria (U.N. Independent International Commission of Inquiry on Syria) e già a capo del tribunale dell’Onu per i crimini di guerra in Jugoslavia e Ruanda, ha dichiarato alcuni mesi fa alla TV svizzera che «ci sono forti sospetti, ma non ancora prove incontrovertibili, che i ribelli abbiano utilizzato il gas nervino» con l’intento di riversare la responsabilità dell’atto sul governo siriano – così da indurre le potenze occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa (e Francia in coda) ad accelerare un possibile intervento militare, in queste ore da più parti paventato.
Intanto, facendo seguito dell'ispezione tecnica da parte di specialisti dell'Onu del 26 agosto, il segretario di stato americano John Kerry ha accusato il regime siriano di aver "sistematicamente distrutto le prove" nell'area in cui sarebbe avvenuto l'attacco, "un atteggiamento", ha proseguito Kerry "che non è quello di un governo che non ha nulla da nascondere" (CBS News); con ciò giustificando il probabile intervento militare, sebbene in assenza di prove. Una razionale scelta politica, dunque, potrebbe essere dietro alla vicenda dell’utilizzo di un arma di distruzione di massa (il Sarin) contro la popolazione civile, non escludendo responsabilità da parte dell’opposizione armata siriana, verosimilmente (ma questo è da verificare) una delle fazioni maggioritarie fortemente ideologizzate e radicali in qualche modo collegate all’organizzazione transnazionale qaedista. 
Louay Almokdad, portavoce di uno dei gruppi ribelli, nega che da parte del Free Syrian Army siano state utilizzate armi chimiche, questo anche per ragioni di impossibilità pratica, ossia la disponibilità di vettori di lancio. Ma il Free Syrian Army è solamente uno dei tanti e incontrollati gruppi di opposizione armata impegnati nel tentativo di abbattere gli al-Assad. Ma il fatto che qualche gruppo ribelle - e non le forze governative siriane - possa aver utilizzato armi chimiche, sebbene non ancora confermato, non stupisce. Rimane inspiegabile perchè le forze governative avrebbero avuto bisogno di utilizzare armi chimiche in un momento in cui avevano il vantaggio sul campo di battaglia, provocando poche vittime tra i ribelli e molte tra i civili. Rimane difficile comprendere il senso di una simile iniziativa. 
Preoccupa, poi, l’approccio radicale e ideologico di alcune fazioni ribelli, per lo più elementi esogeni non siriani – per questo non legati al “territorio” sociale e culturale siriano.
E non stupisce l’effetto emotivo che ha investito l’opinione pubblica globale, conseguenza del sapiente utilizzo dell’«informazione 2.0» (web, social network in primis), dei media tradizionali e del processo di amplificazione massmediatica, che avrebbero consentito ai governi di prendere posizione, sostenuti dal pensiero generale e diffuso ma pericolosamente lontano da un approccio razionale e lungimirante volto a risolvere la guerra siriana: l'emozione si è sostituita alla ragione, consentendo ai principali attori pro-intervento di perseguire propri obiettivi e agende nascondendoli dietro il velo dell'aiuto umanitario. Gli Stati Uniti, inizialmente sostenuti anche dalla Gran Bretagna, si sono riservati di valutare un intervento militare, prevalentemente aereo, mentre una consistente flotta navale delle due potenze è già operativa nel Mediterraneo. Ma l’esperienza “politico-militare” presa in maniera assai infelice a modello dagli Stati Uniti di Obama è quella che portò l’allora presidente Clinton a intervenire nella guerra in Kosovo, nel 1999 (allora come oggi, nonostante l'opposizione della Russia). A distanza di 14 anni da quella scelta i problemi kosovari non sono risolti, nonostante una presenza continua di truppe della Nato; con ogni probabilità non lo sarà quella siriana, ben più complessa a caratterizzata da equilibri interni assai più fragili di quelli kosovari (e Jugoslavi ) degli anni Novanta. 
E se il ministro degli esteri Emma Bonino ha bollato come non praticabile un intervento militare in Siria senza la copertura legale del Consiglio di sicurezza dell'Onu, il Presidente del Consiglio Letta, in seno alla riunione dei G20 del 6-7 settembre, ha formalmente aderito alla condanna nei confronti della Siria per l'utilizzo di armi chimiche (senza però una conferma ufficiale, nè una prova concreta) e inviato due navi da guerra al largo del Libano (ufficialmente per la sicurezza del contingente miliatre italiano li schierato); tutto sembra muoversi verso un'azione offensiva e punitiva.
Ma un intervento militare unilaterale degli Stati Uniti (e dei suoi alleati, della Nato e non) non sarebbe una scelta razionale, risolutiva, bensì sbagliata, miope, che precipiterebbe la Siria in una situazione certamente non migliore di quella afghana, irachena, libica, paesi accomunati dalla politica dell’intervento armato statunitense (e occidentale in genere).Considerati i divergenti interessi dei Paesi che sostengono i ribelli, l’invasione agevolerebbe l'espansione dei gruppi radicali jihadisti a livello regionale e contribuirebbe alla frammentazione del Paese - così come accaduto in Iraq.  I paesi della Nato, così come quelli arabi del Golfo - ad esclusione dell'Iraq - auspicano uno scenario caratterizzato da un Iran privato del sostegno siriano, (benchè paradossalmente l'Iraq post-Saddam si sia avvicinato a proprio a Teheran). Nel conteggio degli svantaggi di un intervento militare in Siria vanno poi ad aggiungersi il rischio di una destabilizzazione a livello regionale, conseguenza del possibile allargamento del conflitto (Libano, Iran, Israele), e la frattura dei già incerti equilibri internazionali nelle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti, Cina e Russia; quest'ultima fermamente impegnata a contrastare un'azione unilaterale di Washington. Bashar al-Assad dovrà lasciare, questo è assai probabile, ma il sostegno indiscriminato (così come quello indiretto) ai gruppi di opposizione armata va evitato, così come il ricorso a un frettoloso e dubbio – benché mediaticamente appagante – “ricorso ai principi della libertà e della democrazia” limitato a un mero esercizio elettorale (e i paesi travolti dalla primavera araba ne sono un esempio, Egitto in primis). La ricetta da seguire per il processo di risoluzione della guerra siriana? Pochi e certamente non semplici (ma necessari) passi:
1. Cessate il fuoco generale,
2. disarmo condiviso delle parti contrapposte e
3. contemporaneo (e condiviso) schieramento di una forza neutrale di interposizione tra le parti con mandato delle Nazioni Unite, seguito da una
4. transizione morbida verso un governo di transizione in grado di mantenere in essere gli instabili e precari equilibri etno-politico-confessionali siriani.
Non sarà facile, ma è pur sempre meglio tentare piuttosto che contribuire, attraverso un intervento armato unilaterale, all’involontario suicidio di massa del popolo siriano, della sua cultura, delle sue ricchezze materiali e immateriali. A ciò si unisce il rischio della conseguente, e probabile, incrinatura degli equilibri diplomatici e delle relazioni internazionali così come le conosciamo oggi. Una soluzione basata sulla guerra può sembrare la più efficace, è invece un errore strategico dalle conseguenze non prevedibili e incontrollabili.
articolo pubblicato il 26 agosto 2013 e aggiornato il 7 settembre

War ends: new military Mission to Afghanistan. Between negotiate and strategic interests

CeMiSS Quarterly 1/2013
by Claudio Bertolotti

As US considers how quickly to withdraw the combat troops in Afghanistan and turn over the war to Afghan national security forces, a bleak new Pentagon report has found that only one of the Afghan National Army’s 23 brigades is able to operate independently without support from the Nato partners. According to the report, violence in Afghanistan is higher than it was before the surge of American forces into the country two years ago, although it is down from a high in the summer of 2010. The aforementioned “Report on Progress Toward Security and Stability in Afghanistan” is required twice a year by US Congress.
Furthermore, it is assessed that the Taliban remain resilient, that widespread corruption continues to weaken the central Afghan government and that Pakistan persists in providing critical support to the armed opposition groups operating in Afghanistan.
Consequentially to the security situation and to the strategic opportunities, all Nato member nations on 4-5 of June 2013 endorsed the new Nato «Resolute Support» mission in Afghanistan to train, advise and assist Afghan national security forces. The alliance is getting prepared for the new mission after the new concept of operations was endorsed.
The new mission will have a limited regional scope in Afghanistan including capital Kabul (under Turkey responsibility – to be confirmed), North (Germany), West (Italy), South and East (United States) parts of the country; the main focus of the mission will be the Afghan institutions and core level of Afghan army and national police. Even if the exact number of troops to remain in the country post 2014 has not been finalized yet the Nato will be responsible for the security of the future trainers, advisers and forces. US remains committed to support Afghanistan in the long term by remaining the largest contributor and lead nation in the new NATO mission.
Talks and compromises... (read full article pages 69-72)

martedì 30 luglio 2013

2013-2015: Resolute Support. Tra il dialogo con i taliban in Qatar e la nuova missione della Nato in Afghanistan

articolo pubblicato sull'Osservatorio Strategico CeMiSS (pp.81-84)


Dopo un inizio di primavera caratterizzato da un aumento significativo di attacchi spettacolari e simbolici a strutture governative in tutto l’Afghanistan, è valutabile che l’ondata di attacchi contro ISAF, le forze di sicurezza afghane e gli obiettivi istituzionali di Kabul continuerà sino alle elezioni presidenziali del prossimo aprile, in particolare dopo il ritiro delle truppe straniere e il passaggio di responsabilità alle autorità afghane… (vai all’articolo completo)

giovedì 25 luglio 2013

CeMiSS - Le questioni aperte dell'Afghanistan contemporaneo: I limiti attuali della sicurezza interna ed esterna afghana

Articolo pubblicato su
CeMiSS Osservatorio Strategico
Rubrica Sotto la Lente (pp 79-82)

di Claudio Bertolotti

Se i tentativi di dialogo e soluzione negoziale da parte del presidente afghano verso i gruppi di opposizione armata possono aprire qualche spiraglio di speranza su un processo di pacificazione basato sul compromesso, la violenta offensiva di primavera dei taliban e gli attacchi ad alta risonanza mediatica, da questi portati a compimento, allontanano sempre più la realizzazione di tale progetto e con esso le possibilità di conclusione del conflitto afghano, nonostante il disimpegno avviato dalle forze della Coalizione a guida statunitense.
Gli Stati Uniti hanno affermato di voler concludere nei tempi previsti la transizione della sicurezza in Afghanistan; lo sforzo principale dei paesi partecipanti alla missione a guida NATO resta dunque la formazione delle locali forze di sicurezza, sebbene non sia al momento definito il livello di equipaggiamento che queste riceveranno per operare. In particolare, nulla è stato ancora definito in merito ad un’eventuale dotazione aerea (elicotteri) necessaria al trasporto delle truppe, al sostegno alle operazioni terrestri e all’evacuazione dei feriti dal campo di battaglia…(vai alla pubblicazione completa)

lunedì 8 luglio 2013

INSTITUTE FOR CULTURAL DIPLOMACY - AFGHAN VARIABILES. A PROSPECTIVE ANALYSIS: 2013-2014 POSSIBLE SCENARIOS






Abstract
If compared with a ‘new civil war’ scenario (consequential to the dissolution of the Afghan State and the Afghan National Security Forces and the victory for the Armed Opposition Groups), events during 2012 tend to suggest a 2013-2014 scenario characterised by: an increase of local level conflicts; a political and social instability of the Afghan state and an ANSF unpreparedness – partially counterbalanced by
NATO’s effort and support. The end result in the medium term is that Afghanistan will be kept in a condition of
unstable ‘dynamic stalemate’.
2013-2014 will be characterized by the implementation of the U.S.-Afghan Strategic Partnership Agreement which will guarantee the new formula of a U.S. military presence on the Afghan soil based on the medium-long term concession of strategic military bases.
The United States and the NATO, renouncing a real Afghan stabilisation, will proceed with the transition phase with a significant assistance and support to the ANSF (Afghan National Security Forces), at the moment unable to guarantee an effective control of the country.
The Taliban – formally and substantially undefeated – are military able, yet at the same time unable to defeat NATO-ISAF and ANSF troops on the battlefield.
Therefore, the Taliban will try to limit significantly the ANSF operational potential (and thus the effectiveness of transition) through the ‘trust-undermining’ process between NATO-ISAF advisors/trainers and mentored ANSF individuals.
A direct effect of this process is the increasing phenomenon of the ‘green on blue attacks’ (Afghan soldiers who attack their advisors and mentors), contributing to a further acceleration of the disengagement from the country.
Internally, political and electoral processes (characterized by limited transparency and evident frauds) will be influenced by the AOGs (Armed Opposition Groups) especially in rural and peripheral areas, in particular the Pashtun-dominated ones.
 
Observing the current situation, we cannot exclude attempts of political partition of the country based on the willingness to obtain access to the economical advantages deriving from the mineral and energy resources. This would create ‘fault line conflicts’, amplified by the limited governmental administrative capabilities and
its high corruption level.
A positive role will be played by regional actors, which will increase their political and economical involvement.
In brief, in the next two years Afghanistan is going to be:
• relatively unstable from a domestic political perspective and exposed to the risk of a reduction of the role of the central government (advantaging local and peripheral powers),
• seriously precarious regarding its security and governance,
• inadequate vis-à-vis the transparency required by the international community’s economical support agreements due to an endemic corruption,
• surrounded by a dynamic and flexible environment regarding regional...