Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 30 gennaio 2014

CULTURAL AWARENESS. Il manuale per gli operatori in Afghanistan: la Linea guida di Afghanistan Sguardi e Analisi


È finalmente disponibile il manuale del corso di AFGHAN CULTURAL AWARENESS:

Linea guida per operatori civili e militari al corretto approccio socio-culturale

Una descrizione  completa e ad ampio spettro: dal quadro geopolitico e geostrategico di cui il Paese è parte, alle dinamiche politiche e sociali interne, agli usi, i costumi e le tradizioni dei "popoli afghani".

In attesa di pubblicazione
Disponibile in versione prestampa

A partire dall’analisi della stratificata società afghana. Dei suoi usi, costumi e delle molteplici tradizioni, del complesso intreccio culturale e religioso, il testo descrive il “profilo socio-culturale” e politico dell’Afghanistan contemporaneo: le dinamiche, le ragioni, le evoluzioni di un conflitto di ampia portata, sono qui definite grazie allo “studio sul campo” e all’analisi open source intelligence (OSINT).
«Afghanistan Sguardi e Analisi» è la linea guida per operatori civili e militari che si inserisce in un più ampio contesto di informazione e formazione culturale introdotto dall’Autore nel 2009 (e tuttora in corso) che ha coinvolto oltre 4.000 partecipanti.
L’iniziativa recepisce le esigenze manifestate dagli operatori delle Forze Armate, da Organizzazioni governative e non governative e contribuisce alla riduzione del livello di pericolo di “uomini e donne sul terreno”, alla limitazione dei rischi individuali, derivanti da incomprensioni di natura culturale, e al raggiungimento degli obiettivi della missione. In particolare risponde alle esigenze della Nato e dell’Esercito italiano (per saperne di più).

lunedì 27 gennaio 2014

Istituto di Affari Internazionali: La Nato nell'Afghanistan che verrà

di Claudio Bertolotti

Se il 2013 si è chiuso con un sostanziale nulla di fatto per il dialogo negoziale, il 2014 si annuncia come anno cruciale per l’Afghanistan: elezioni presidenziali e formalizzazione del Bilateral Security Agreement da cui dipende la permanenza militare straniera. Questi appuntamenti s’inseriscono in un quadro generale che non lascia spazio all’ottimismo. Il 2015 vedrà la Nato in Afghanistan sotto una nuova veste: la missione dell’Alleanza muta nome, dimensioni e mandato, ma non cambiano i principi regolatori di una presenza a lungo termine. 

Dialogo complesso
La ricerca del dialogo e i suoi ripetuti “stop-and-go” hanno dimostrato quanto poco gli “attori protagonisti” della guerra afghana siano disposti a concedere: un approccio che contrappone il lungimirante “attendismo opportunista” dei talebani al disperato “stallo dinamico” di Stati Uniti e alleati. Una strategia che si è dimostrata favorevole ai primi che hanno alzato la posta in gioco nell’attesa di sviluppi politici e militari. Sviluppi che, sul piano operativo, si sono concretizzati nei cosiddetti “attacchi spettacolari” dal forte impatto mediatico ed emotivo - in particolare gli attacchi suicidi - a fronte di una diminuzione di azioni contro gli uomini della missione Isaf, ma con conseguente incremento di attacchi contro le forze di sicurezza afghane. Un trend che, salvo imprevisti, sarà confermato anche nel 2014.

La fase “transition” della missione Isaf, che ha visto il governo afghano assumere la responsabilità della sicurezza, ha dato vita a due fenomeni tra loro collegati. Da un lato è diminuito il territorio sotto il controllo governativo; dall’altro, la riduzione delle forze straniere ha portato a un peggioramento della sicurezza e all’aumento delle capacità operative insurrezionali.

Orizzonti incerti
Sul piano politico gli orizzonti afghani sono incerti. Il processo elettorale che consegnerà all’Afghanistan un nuovo presidente procede a rilento, ridotto è il numero di cittadini iscritti al voto, ancora più limitata la partecipazione femminile. Tutte premesse a una situazione politica instabile.
Lo stato afghano, incapace di ottenere il monopolio della forza, dipendente dagli aiuti economici e militari stranieri, non è lontano dal fallimento sostanziale. Le sue forze armate, falcidiate da diserzioni e perdite in combattimento, mancano di logistica e supporto aereo e sono in grado di garantire un livello di sicurezza minimo nelle aree urbane, ma non in quelle periferiche del paese.
La chiusura della missione Isaf è il simbolico spartiacque dell’impegno internazionale in Afghanistan, un impegno che passerà da “combat” ad “advising”. Nel complesso, il sostegno della Nato non sarà più in grado di assicurare un capillare supporto operativo, ma garantirà agli Stati Uniti la disponibilità di basi strategiche su suolo afghano. Un’analisi in prospettiva impone di considerare gli elementi influenti sugli sviluppi dell’Afghanistan contemporaneo: il sostegno politico-economico internazionale, gli interessi delle potenze regionali, la permanenza della Nato. A questi si contrappongono il calo d’interesse generale per l’Afghanistan, un’endemica corruzione, l’assenza di una classe dirigente competente, disagio sociale, criminalità, un’insurrezione incontrastata e l’impreparazione delle forze di sicurezza afghane. Le minacce alla stabilizzazione sono la cronica conflittualità, il ridotto sostegno popolare alla presenza straniera, l’incapacità dello stato, i solidi legami tra gruppi di opposizione armata e druglord regionali.

Sul piano politico-sociale si prevedono effetti conseguenti alla contrapposizione centro-periferia, all’accesso dei gruppi di opposizione a forme di potere, al rischio di brogli elettorali. Inoltre, sulla sicurezza influirà il ruolo di primo piano dei gruppi di opposizione, imbattuti, militarmente validi, sebbene incapaci di sconfiggere Isaf e le forze afghane. Anche per questo motivo non è esclusa una riapertura del dialogo negoziale; la contropartita potrebbe essere una spartizione del potere e una parziale rinuncia ai diritti costituzionali. Infine, il ruolo politico ed economico delle potenze regionali sarà rilevante, anche in virtù dell’accesso alle risorse minerarie ed energetiche. 

Nuovo impegno militare
Per il biennio 2014-2015 è prevedibile uno scenario caratterizzato da maggiore violenza, ridimensionamento del ruolo dello stato, pressione delle forze insurrezionali, instabilità politico-sociale. Al contempo, l’Afghanistan si avvia verso il nuovo impegno militare della Nato. Due le ipotesi al vaglio, una possibile (8mila soldati) e l’altra probabile (12-15 mila soldati). La prima ipotesi - “Kabul-centric” - finalizzata al controllo del centro a fronte di un abbandono, de facto, delle aree periferiche, non escluderebbe un accordo di compromesso tra governo afghano, Stati Uniti, Pakistan e i talebani. La seconda - “Regional-Limited”- prevedrebbe una dislocazione delle truppe presso i principali comandi regionali (Kabul, Herat - sotto la responsabilità italiana -, Kunduz, Kandahar e Helmand). La prima ipotesi, di fatto, sarebbe un’implicita ammissione di fallimento della missione Isaf; la seconda, in grado di garantire capacità di supporto e intervento, è razionale e lungimirante ma non precluderebbe ulteriori sviluppi della missione.

* Questo articolo è una sintesi del contributo di analisi per “Prospettiva Generale 2014” del CeMiSS (in via di pubblicazione). Claudio Bertolotti (Ph.D) analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di "società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo", è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. Opinionista, autore di saggi, analisi e articoli di approfondimento sul conflitto afghano. ISSN 2280-9228 (Istituto di Affari Internazionali)

venerdì 24 gennaio 2014

VERSO LA CHIUSURA DI ISAF. Al via il nuovo impegno della NATO in Afghanistan: due ipotesi di impiego


di Claudio Bertolotti

Karzai e una soluzione per l’Afghanistan: una contraddizione di termini
Procede a singhiozzo il processo negoziale sul Bilateral security Agreement (Bsa) tra Stati Uniti e Afghanistan. Dopo aver preteso e imposto l’arbitrato di una Loya Jirga istituita ad hoc (21-24 novembre), sebbene al di fuori dell’ordinamento costituzionale, il 24 novembre il presidente afghano Hamid Karzai ne ha rigettato il responso (tecnicamente la “raccomandazione finale” che avrebbe autorizzato una presenza “vincolata” di truppe straniere) poiché non in linea con l’indirizzo politico del governo. Un atteggiamento che ha sorpreso, non poco, sia gli osservatori afghani sia gli analisti politici e strategici della Comunità internazionale.

Lo strategico bluff afghano: un passo avanti, un passo indietro
Sebbene Karzai abbia convocato e organizzato la Loya Jirga nazionale per essere sostenuto nelle sue decisioni politiche, la dichiarazione finale della presidenza afghana ha contestato proprio la decisione, espressa a maggioranza, di questa, affermando che la firma dell’accordo potrà avvenire esclusivamente a seguito di ulteriori passi avanti nel processo negoziale tra i due governi e, in particolare, dopo che il comando della missione Nato-Isaf (leggasi Usa) avrà messo fine ai cosiddetti raid notturni all’interno delle abitazioni civili afghane; una questione, quest’ultima, che sembrava già essere stata risolta, o comunque superata, proprio in seno alla Loya Jirga.

Inoltre, sempre Karzai, ha esplicitato il proprio intendimento di non procedere alla firma dell’accordo prima delle elezioni presidenziali in calendario per il prossimo aprile. Molto in là, sul piano temporale, troppo in là su quello politico e diplomatico.

Sibghatullah Mujadidi, un alleato di vecchia data di Karzai che ha presieduto la Loya Jirga, ha minacciato di rassegnare le proprie dimissioni e di abbandonare il paese se Karzai dovesse decidere di non firmare l’accordo oggetto di discussione. Una minaccia caduta nel vuoto, tra  la frustrazione e l’esasperazione generale – in particolare tra molti dei candidati alle elezioni presidenziali del 2014.

L’endorsement della Loya Jirga al Bsa, che avrebbe dovuto determinare “formalmente” (benché, come abbiamo detto, al di fuori da qualunque formula di giustificazione costituzionale), l’entità e il mandato delle truppe statunitensi dopo la chiusura della missione “combat” prevista per il dicembre 2014, dunque non è stato gradito da un presidente sempre più in balia di indefiniti umori politici e frustrazioni diplomatiche.

Hamid Karzai, a parole, dichiara dunque di non volere temporaneamente procedere alla firma dell’accordo. Ma più concretamente, quali sono gli sviluppi del processo di transizione e nel sostegno allo stato afghano?

James Cunningham, ambasciatore statunitense a Kabul, si limita a prendere atto dell’invito della Loya Jirga rivolto a Karzai per una conclusione dell’accordo ponendo come termine ultimo la fine di dicembre. L’alternativa, paventata sul piano diplomatico, potrebbe essere l’“opzione zero”, ossia il ritiro totale delle truppe straniere dal suolo afghano. Un’ipotesi, de facto, poco plausibile a cui potrebbe seguire un’ancora più improbabile eventualità, ossia un accordo di pace in tempi brevi con i taliban.

Dunque, che fare di un Afghanistan che non presenta opzioni di soluzione a portata di mano?

Almeno sul piano teorico, non è chiaro ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi; ma la realpolitik non lascia spazio a dubbi, semmai a preoccupazioni concrete.

Karzai dice di non voler firmare l’accordo, se non dopo le elezioni presidenziali – dunque, essendo lui non candidato, il problema passerebbe al suo successore –, e comunque dopo che gli Stati Uniti (da lui provocatoriamente qualificati come un “male” e responsabili del fallimento elettorale del 2009) e il Pakistan avranno reso possibile un accordo negoziale con i gruppi di opposizione armata, in primis i taliban dell’Emirato islamico, e liberato tutti i prigionieri con cittadinanza afghana detenuti presso il carcere sui generis, extraterritoriale ed extra-giurisdizionale, di Guantanamo; ma Karzai, conscio di non poter pretendere la liberazione di alcuno che sia detenuto dagli Stati Uniti,  è altresì consapevole di non essere in grado di garantire la stabilità del suo paese, né un minimo livello di sicurezza, né di contenere un’eventuale offensiva insurrezionale senza il contributo militare straniero (al vertice della Nato del maggio 2012, la comunità internazionale si è impegnata a contribuire all'addestramento, all'equipaggiamento e al mantenimento delle forze di sicurezza locali con 4.1 miliardi di dollari fino al 2017; di questi, due miliardi a carico degli Stati Uniti) e, cosa ben più importante, di perdere l’aiuto economico della Comunità internazionale (16 miliardi di dollari in aiuti decisi nel luglio 2012 a Tokyo). In breve, Karzai starebbe bluffando, ma consapevole della visione (e della priorità) strategica della controparte statunitense.

Gli Stati Uniti, non hanno alcuna intenzione di lasciare l’Afghanistan – poiché ciò si tradurrebbe in una rinuncia alle basi strategiche operative su suolo afghano –, sebbene minaccino a gran voce di ritirare tutte le truppe attualmente presenti, privando così le forze di sicurezza di Kabul del necessario e fondamentale sostegno alla sicurezza del paese. Anche gli Stati Uniti stanno bluffando.

I gruppi di potere politico ed economico afghani cercano di conservare le proprie prerogative garantendo gli equilibri ma spingono, direttamente e indirettamente, verso un ancestrale conflitto di faglia che si muove su linee di demarcazione etno-culturale (che per semplificazione possiamo definire “fronte pashtun” versus “fronte non-pashtun”) e interessi legati al narcotraffico. Nessun bluff, è un dato di fatto.

Infine, i taliban non accettano di sedere al tavolo negoziale con il governo di Kabul poiché lo considerano (almeno sul piano propagandistico) un “governo fantoccio” alle dipendenze degli Stati Uniti. Al contempo, i seguaci del mullah Omar minacciano grandi offensive, attacchi spettacolari e nessuna pietà per tutti i collaborazionisti: con buona probabilità – grande offensiva a parte – questo non è un bluff. Intanto osservano la scena dall’esterno, traendo beneficio dal narcotraffico che la guerra alimenta e sostiene, guadagnando tempo, e raccogliendo i frutti di un successo indiretto ogni giorno che passa e che si avvicina al ritiro del grosso delle truppe straniere dall’Afghanistan.

Breve analisi conclusiva

Dunque – bagarre politico-diplomatiche a parte – l’Afghanistan del 2014 si avvia, sebbene a rilento, verso una scontata formalizzazione del Bsa. Un accordo che, nella sostanza prevederà l’inizio di un nuovo impegno militare a partire dal 1° gennaio 2015 sino a tutto il 2024, e oltre, con tacito assenso o con risoluzione dell’accordo da parte di uno dei due soggetti firmatari con almeno due anni di preavviso.
Una presenza militare di supporto e assistenza (limitata), concentrata su attività “advising” e non più prettamente (ma non escluso a priori) “combat”.
Un impegno la cui natura ed entità è stata valutata di circa 12.000 truppe multinazionali, fino ad un massimo di 15.000. Due le ipotesi al momento al vaglio degli strateghi militari e basata su scelte di opportunità, sulle capacità esprimibili dalle forze di sicurezza afghane e sul ruolo dei gruppi di opposizione armata.

La prima, tecnicamente “Kabul-centric” prevederebbe una concentrazione di truppe nell’area della provincia capitale; un impegno che, in estrema sintesi, si concretizzerebbe in un tentativo di controllo del centro a fronte di un sostanziale abbandono, de-facto, delle aree periferiche. Un’ipotesi che potrebbe non escludere un possibile accordo preventivo tra governo afghano, Stati Uniti, Pakistan e gli stessi gruppi di opposizione armata (taliban in primis). In questo caso potrebbero essere schierati non più di 8.000 soldati (di questi 2.000/2500 elementi delle forze speciali – due terzi delle quali statunitensi e un terzo della Nato).

Una seconda ipotesi, più impegnativa e denominata “Regional-Limited" potrebbe prevedere una dislocazione delle truppe presso i principali comandi regionali militari (Kabul, Herat, Kunduz, Kandahar, Helmand) per un totale di circa 12.000 truppe complessive ma incrementabili fino a un massimo di 15.000; in questo caso i contingenti sarebbero soggetti a una maggiore pressione da parte dei gruppi di opposizione armata ma garantirebbero una maggiore capacità di supporto e d’intervento (del totale delle truppe, non più di 3.000 potrebbero essere le forze speciali – anche in questo caso due terzi sarebbero statunitensi e un terzo degli altri paesi dell’Alleanza atlantica).

In entrambi gli scenari il rapporto tra forze “convenzionali” e “speciali” sarebbe sbilanciato a favore delle seconde (rispetto all’attuale situazione); ciò lascia intuire la natura degli interventi che le truppe Nato della missione Resolute Support sarebbero chiamate ad effettuare.


(Osservatorio Strategico CeMiSS 9/2013)

lunedì 20 gennaio 2014

CeMiSS - L’ostacolo formale della presenza militare straniera in Afghanistan

di Claudio Bertolotti



Kabul, 19 ottobre. Il Segretario di Stato americano John Kerry e il presidente afghano Hamid Karzai hanno annunciato il raggiungimento di un accordo formale relativo alla presenza di truppe statunitensi su territorio afghano a partire da dicembre del 2014, momento in cui scadrà il mandato delle Nazioni Unite e, dunque, decadrà l’immunità per i militari stranieri; un accordo sul Bilateral Security Agreement (BSA) dunque c’è, ma è parziale.
In estrema sintesi, vi è la volontà di siglare l’accordo, mantenere le truppe, definirne la consistenza quantitativa, ma si impone un differente approccio in merito all’immunità che dovrebbero o non dovrebbero avere i soldati stranieri. La questione passa allora in mano al governo afghano che, per ragioni di opportunità pratica lontane dall’essere trasparenti e al di fuori del mandato costituzionale, rimanda la decisione a una costituenda assemblea tradizionale, la Loya Jirga. Da questo gioco delle parti il parlamento afghano, legittimo attore, viene dunque escluso per decisione del presidente. Immediate le proteste, formali, di alcuni candidati alle prossime presidenziali, Abdullah Abdullah – primo antagonista di Karzai – in testa.

Alla ricerca del necessario accordo bilaterale
L’accordo sul Bilateral Security Agreement tra Stati Uniti e Afghanistan potrebbe essere concluso in tempi brevi, sebbene in maniera parziale. Troppi i punti di disaccordo tra le parti in causa, il principale tra questi rimane la questione dell’immunità a cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) essere assoggettate, a partire dal 2014, le truppe di Washington su territorio afghano. Una questione delicata che potrebbe limitarne, se non del tutto escluderne, la presenza.
È una questione essenziale, e sostanziale, ormai presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afghane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità.
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sull’opportunità di una presenza militare statunitense su territorio afghano, dall’altro lato non vi è però una visione comune sui termini che debbano definire lo Status of Forces Agreement (SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afghane. Karzai ha demandato, come ormai consuetudine e lontano dalla legittimità costituzionale, l’onere di una risposta a una Loya Jirga (assemblea tribale dei saggi) che verrà convocata nel mese di novembre. Sul fronte opposto, il Segretario di Stato John Kerry ha ribadito che senza tale accordo i soldati statunitensi non potranno rimanere in Afghanistan.
Quella di washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnato contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. Ciò che è opportuno sottolineare è che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
Al tempo stesso non stupisce la posizione di Karzai, in cerca di sostegno da parte dell’opinione pubblica afghana e dunque spinto ad assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei confronti di un soggetto – gli Stati Uniti e con essi gli alleati della Nato – il cui favore popolare si è progressivamente eroso in maniera significativa. Ciò che Karzai vuole evitare adottando un atteggiamento apertamente riluttante alla concessione dell’immunità – di fronte al proprio popolo e al fine di non esporsi all’azione della propaganda avversaria – è l’accusa di rinuncia alla sovranità nazionale. Dunque una scelta strategica dettata dall’opportunità politica del momento, in cui la presenza straniera viene rappresentata e sempre più percepita come occupazione, nonostante la significativa riduzione dei contingenti militari e il formale processo di transizione ("tranche five" – stage, giugno 2014).
Dunque, quale potrebbe essere l’ipotesi più pericolosa nel caso in cui Washington e Kabul non giungessero a una soluzione di compromesso in merito alla questione immunità?
L’ipotesi più plausibile è quella del ripetersi di uno scenario ben noto, quello iracheno. La mancanza di un accordo tra i governi statunitense e iracheno comportò il ritiro completo delle forze di combattimento americane; oggi l’Iraq è stravolto da uno stato di guerra cronico dove le forze di sicurezza locali non sono in grado di contenere, né di contrastare, un fenomeno insurrezionale sempre più capace e aggressivo.
La soluzione politica dal reciproco vantaggio perseguita da Karzai e avallata dagli Stati Uniti: la Loya Jirga
L’assemblea tradizionale dei capi tribali – la Loya Jirga – nominata dal presidente Karzai sarà chiamata a discutere (verosimilmente nella seconda metà di novembre) l’accordo di sicurezza che prevede la presenza dei soldati statunitensi in Afghanistan dopo il 2014: tremila potrebbero essere i partecipanti, ognuno con diritto di parola.
Dal punto di vista di Karzai, detta Loya Jirga dovrebbe esprimere la volontà popolare; al tempo stesso è stato però escluso dal processo dialogico quello che dovrebbe essere l’unico legittimo attore, ossia il parlamento nazionale. Una situazione delicata che, qualora risolta, dovrebbe portare all’accordo che garantirà ai 10.000 soldati statunitensi (a cui si uniranno gli alleati della Nato – e tra questi, con un ruolo leader, anche l’Italia); in caso contrario l’opzione è quella del loro disimpegno e conseguente ritiro, in contrasto con quanto definito nello Strategic Partnership Agreement siglato lo scorso anno dai presidenti Obama e Karzai.
Comunque si concluda questa vicenda, è un fatto che molti dei contingenti stranieri in Afghanistan sono stati ritirati o ridotti dagli stati contribuenti, altri lo faranno entro la fine del 2014; se la Loya Jirga deciderà di non autorizzare la permanenza di truppe straniere su suolo afghano, o negherà loro il necessario status giuridico, questo comporterà il fallimento dell’accordo di cooperazione, aprendo così al peggiore scenario possibile: la temuta “opzione zero”, ossia il ritiro di tutte le forze di sicurezza straniere e la cessazione di qualunque sostegno militare allo Stato afghano.
Sul fronte dei taliban, non si è fatta attendere la dichiarazione formale dell’Emirato islamico
Mentre il governo degli Stati Uniti e quello afghano sono impegnati a definire i dettagli dell’auspicato accordo bilaterale, il mullah Mohammad Omar, leader dei taliban afghani, il 14 ottobre ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui afferma che il suo movimento continuerà a battersi sul campo di battaglia qualora tale accordo fosse raggiunto. In sostanza, il mullah Omar ha lanciato un ultimatum a entrambi gli attori in gioco: una presenza militare straniera dopo il 2014 non potrà che giustificare la prosecuzione della guerra di liberazione nazionale, il che si traduce, molto semplicemente, in intensificazione del conflitto.
A questo si unisce l’accorato appello a boicottare il processo elettorale per le presidenziali del 2014 e la disponibilità a continuare il dialogo negoziale con la comunità internazionale esclusivamente attraverso l’attività diplomatica dell’ufficio politico dell’Emirato islamico dei taliban a Doha, in Qatar.
Breve analisi conclusiva
Un Afghanistan privato delle forze di sicurezza internazionali vedrebbe l’esercito e la polizia afghani in seria difficoltà nel tentativo di contrasto all’insurrezione dei gruppi di opposizione armata. E comunque sia, anche la ridotta presenza di istruttori e consiglieri statunitensi e della Nato poco potrebbe fare, sul piano operativo, a sostegno delle forze di sicurezza afghane. Nonostante sul piano politico vi siano le più ampie rassicurazioni sulle capacità dello strumento militare di Kabul, ormai pochi sono convinti che ciò possa concretizzarsi in un risultato favorevole, se non attraverso un processo politico-negoziale orientato al compromesso; un compromesso che con il trascorrere del tempo tende sempre più a spostare l’asse delle concessioni a favore del fronte taliban (e dell’insurrezione armata in generale).
Il 18 giugno dell’anno prossimo verrà formalizzato ufficialmente il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane. Ma, è noto – nonostante i proclami ufficiali – che l’esercito afghano non è pronto, non ha copertura né capacità aerea, manca di capacità intelligence e logistica, sia sul piano operativo che su quello tattico, è insufficientemente integrato e necessita di equipaggiamenti per le attività di contrasto alla minaccia Ied (Improvised explosive devices – ordigni esplosivi improvvisati) e, inoltre, tra i suoi membri è elevato il livello di tossicodipendenza (cit. Gen. Dunford, comandante della missione ISAF).
Nel complesso, sono stati spesi miliardi di euro, migliaia di vite umane per una guerra che non è stata vinta: l’impegno della transizione è stato preso anni fa; oggi, pronte o meno, le forze di sicurezza afghane dovranno assumersi l’onere della sicurezza del paese. I timori sono tanti, su entrambi i fronti, e il prezzo da pagare è già stato messo in conto da parte di tutti i soggetti interessati.
I gruppi di opposizione armata, dal canto loro, stanno aspettando proprio il 18 giugno per raccogliere i frutti di una guerra combattuta che, allora, sarà nel suo tredicesimo anno.

giovedì 16 gennaio 2014

Verso le elezioni: chi sarà il nuovo presidente? (dell'Afghanistan)

di Claudio Bertolotti


Tra variabili alleanze e instabili equilibri politici, si dimostra incerto il processo politico che porterà all’elezione del nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan il prossimo 5 aprile. Così come incerto rimane l’accordo politico-diplomatico che dovrebbe condurre all’impegno militare degli Stati Uniti e della Nato a partire dal 2015.
A fare da sfondo, permane la ricerca di un dialogo negoziale con il movimento insurrezionale dei taliban – vero soggetto forte del conflitto. Un dialogo sempre meno tangibile ma necessario, in particolare per Kabul e Washington.

Come risponderà il popolo afghano alla chiamata al voto?
Secondo un recente sondaggio condotto dall’ATR Consulting in collaborazione con l’emittente televisiva TOLO News, i candidati dati per favoriti al prossimo appuntamento elettorale per la carica di presidente sono Abdullah Abdullah, ex-ministro degli Esteri di Karzai e capo della “Coalizione Nazionale dell’Afghanistan”, e Ashraf Ghani Ahmadzai, già titolare del ministero delle Finanze.

Il sondaggio, che si è svolto in tutte le trentaquattro province del paese, mostra come – sebbene con andamento variabile a seconda delle aree geografiche (corrispondenti alle attuali “regioni militari” della Nato) – Abdullah sia in vantaggio rispetto agli avversari, con un 26,5% di consensi, seguito da Ahmadzai, con il 20%. Abdul Qayum Karzai, fratello dell’attuale presidente, segue a grande distanza con un gradimento di circa il 5%.
 
A meno di 100 giorni dall’appuntamento elettorale, il sondaggio mette in evidenza come l’interesse dell’opinione pubblica per la competizione elettorale sia sensibilmente aumentato, sebbene almeno il 7% degli intervistati abbia dichiarato di non gradire nessuno dei candidati e ben il 28% di non sapere ancora per chi voler votare.
Dunque, un totale pari al 35% di indecisi e non votanti; molti, troppi, per poter prevedere uno scenario definito dell’Afghanistan post-elettorale. In tale contesto, si inseriscono i potenziali vincitori – e i relativi gruppi di supporto – della competizione elettorale.

In generale, sebbene la discussione sul possibile esito tenda a basarsi sull’aspetto demografico (etno-culturale), è però vero che nessun gruppo ha la possibilità di ottenere una maggioranza schiacciante; ciò imporrà un probabile accordo politico tra le principali parti antagoniste.
In estrema sintesi, le coalizioni maggiormente accreditate sono così composte:
- il ministro degli Esteri Zalmai Rassoul (pashtun), affiancato dai candidati vice-presidenti Ahmad Zia Massoud (tagico) e Habiba Sarabi (hazara); indice di gradimento dell’1,5%.
- l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah (tagico/pashtun), con Mohammad Khan (pashtun) e Mohammad Mohaqeq (hazara); indice di gradimento del 26,5%.
- l’ex ministro delle Finanze Ashraf Ghani Ahmadzai (pashtun), con Abdul Rashid Dostum (uzbeco) e Sarwar Danish (hazara); indice di gradimento del 20%.
- il fratello dell’attuale presidente, Qayum Karzai (pashtun), con Wahidullah Shahrani (uzbeco) e Ibrahim Qasemi (hazara); indice di gradimento del 5%.
- il parlamentare Abdul Rab Rasoul Sayyaf (pashtun), insieme a Ismail Khan (tagico) e Abdul Wahab Erfan (uzbeco); indice di gradimento del 4,5%.
- l’ex governatore di Nangarhar, Gul Agha Sherzai (pashtun), con Sayed Hussain Alemi Balkhi (hazara) e Mohammad Hashim Zare (uzbeco); indice di gradimento del 3,5%.
- l’ex ministro della Difesa, il generale Abdul Rahim Wardak (pashtun), con Shah Abdul Ahad Afzali (tagico) e Sayed Hussain Anwari (hazara); indice di gradimento del 2%.
Dunque, un testa a testa tra un Abdullah, che raccoglie un più ampio consenso tra l’elettorato femminile, e un Ahmadzai, in grado di convincere maggiormente quello di estrazione urbana.
Inoltre, è interessante notare che sia l’Iran che gli Stati Uniti guardino con favore a un equilibrio politico su base etno-religiosa, ossia a uno Stato che nella sua struttura rispetti il delicato “balance of power” tra i molteplici gruppi etnici e religiosi afghani.
Se la tutela dell’etnia minoritaria hazara – e degli altri gruppi sciiti in genere – è una priorità per Teheran, Washington guarda con attenzione a una soluzione politica che garantisca un bilanciamento “adeguato” tra gruppi di potere pashtun (per lo più sotto influenza pakistana) e le altre minoranze etniche.

Nel complesso, quello a cui assiste – dall’esterno – la Comunità internazionale e – dall’interno – la stessa opinione pubblica afghana, è un processo elettorale che procede a rilento, ridotto nel numero di cittadini iscritti al voto, ancora più limitato nella partecipazione femminile, in sintesi un’organizzazione che non soddisfa.
Tutte premesse a una situazione politica instabile a cui si accompagnano gli infruttuosi tentativi di “dialogo politico” con i gruppi insurrezionali (Hezb-e Islami e, in particolare, i taliban) e gli azzardi di revisione (e riduzione) dei diritti costituzionali, con particolare riferimento a quelli delle donne.
Quest’ultimo, tasto dolente ma necessario prezzo che la Comunità internazionale ha dimostrato di essere disposta a pagare al fine di convincere i gruppi di opposizione armata ad accettare un soluzione negoziale al conflitto: argomento a cui i media daranno scarso risalto ma che la stessa Comunità internazionale ha già messo in conto.