Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

"
Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 26 novembre 2013

Missione ISAF - Il conto salato di un ritiro preventivo dall'Afghanistan

 (Perche' #M5S e #SEL sbagliano a chiedere il ritiro dei soldati dall'Afghanistan?)
di C. Bertolotti e F. Giumelli 

In occasione del dibattito sul rinnovo del finanziamento alle missioni, sono state presentate due mozioni di minoranza, Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) e Movimento 5 Stelle (M5s), che ripropongono la tradizionale richiesta del ritiro immediato del contingente italiano. Benché la posizione del governo e della maggioranza parlamentare sia del tutto diversa, queste mozioni alimentano nell'opinione pubblica aspettative e opinioni irrealistiche e forse anche politicamente dannose, che potrebbero complicare l'attuazione della strategia di progressivo disimpegno attualmente in corso.
Il tutto avviene a dispetto degli impegni presi a livello internazionale, della politica estera in generale e degli accordi bilaterali Italia-Afghanistan in particolare.

Caro prezzo
Mentre la Camera dei deputati sta discutendo il rifinanziamento delle missioni internazionali fino al 2013, questa proposta appare interessante se non fosse che l’Italia ha già annunciato il suo ritiro dall’impegno “operativo” dopo le elezioni per il successore del presidente Hamid Karzai.
Il ritiro, previsto per il dicembre 2014, si inserisce in un quadro già concordato con gli alleati Nato, anch'essi in fase di disimpegno che prevede già la riduzione del contingente italiano con il rientro di 486 militari italiani a dicembre. Anticipando il ritiro solamente di alcuni mesi si dovrebbe pagare un prezzo molto alto.
Isaf (ad oggi 87 mila unità) vede la partecipazione di quasi cinquanta nazioni. Dal 2007, la Nato ha diviso la presenza di Isaf in sei comandi regionali al fine di contribuire al ristabilimento delle istituzioni statali e sostenere i circa 27 Provincial Reconstruction Team, la cui attività riguarda ad esempio la costruzione di strade, scuole e ospedali. L’Italia è responsabile della Comando occidentale, al confine con Iran e Turkmenistan, e l’intera area di competenza italiana è composta da quattro province.

Transizione
In previsione di concludere la fase “combat” entro il 2014, i comandi regionali hanno iniziato la transizione dei poteri alle forze di sicurezza locali. Il piano è diviso in cinque tranche e i tremila soldati italiani hanno già ceduto la responsabilità della sicuezza dell’87% della popolazione locale e dell’80% del territorio che controllavano nel 2010 (che dovrebbe diventare quasi il 100% entro fine anno).
Questo processo di responsabilizzazione delle autorità locali è stato voluto principalmente dall’amministrazione Obama, che nel 2009 ha deciso di inviare 33 mila nuove truppe in Afghanistan e allo stesso tempo di programmare il ritiro della quasi totalità del contingente americano tra il 2011 e dicembre 2014.
Nel 2015 dovrebbe prendere il via la missione Resolute Support della Nato, un impegno militare limitato e concentrato su addestramento ed equipaggiamento delle forze afgane - ma sufficiente per intervenire a loro sostegno - con il mantenimento di nove basi e l’istituzione di cinque comandi assegnati a Stati Uniti (aree meridionali e orientali), Germania (area settentrionale), Italia (area occidentale) e Turchia (distretto di Kabul). I dettagli della missione sono proprio al centro di colloqui fra l’amministrazione americana ed il governo di Hamid Karzai nell’ambito di un programma strategico pensato sul piano della politica estera. L’opposto di quello che potrebbe discutere il Parlamento italiano.

Sfide
Andare via in questo momento presenterebbe tre sfide cruciali. In primo luogo metterebbe in discussione la credibilità dell’Italia nell’Alleanza atlantica. Roma ha partecipato alla missione fin dall’inizio ed è oggi uno dei paesi più rilevanti in Afghanistan. Violare gli accordi bilaterali con lo stesso governo di Kabul sarebbe un duro colpo dato ai nostri alleati.
Vi è poi una sfida tattica. Che cosa accadrebbe alla transizione in corso nelle province ancora controllate anche dalle forze italiane? Queste province hanno tuttora forti problemi legati alla sicurezza. Abbandonarle significa fare una cortesia ai gruppi di opposizione armata, vanificando gli sforzi fatti negli ultimi anni.
La terza sfida riguarda la tempistica del ritiro. Per portare a casa i nostri militari non basta comprare loro un biglietto aereo. Il ritiro coinvolgerebbe uomini ed equipaggiamenti accumulati in dodici anni di missione. Tutto questo deve essere fatto in sicurezza, perché attaccare contingenti militari che stanno facendo le valigie sarebbe un ottimo colpo per le forze che intendono destabilizzare la transizione e la legittimità del governo centrale.
In queste condizioni è difficile pensare che esistano i tempi per completare un ritiro prima della data prefissata.
Le forze di sicurezza afghane registrano oggi in media cento caduti al giorno. Nel breve termine, questa situazione lascia presagire uno scenario molto più prossimo a un collasso del governo di Kabul che non a una condizione di stallo dinamico, così come attualmente garantito dalla presenza di truppe straniere sul suolo afghano.Gli Stati Uniti hanno studiato un piano di cinque anni per lasciare l’Afghanistan, la proposta presentata da M5s e Sel lo vorrebbe fare in poche settimane. M5s e Sel propongono di andarsene per risparmiare alcuni milioni di euro (molti meno dei 124,5 stanziati dal decreto per la missione Isaf ai quali andrebbero sottratti quelli per il ritiro), ma al prezzo di costi umani, sociali e politici di valore estremamente superiore al risparmio economico.
A pagare l’immaturità di questa eventuale scelta sarebbero gli afghani e la comunità internazionale. Le truppe straniere - e tra queste anche l’Italia - dovrebbero lasciare l’Afghanistan dopo aver contribuito a creare adeguate forze di sicurezza locali in grado di garantire la prosecuzione dei progetti avviati e gestire la conflittualità.


Francesco Giumelli è assistant professor presso il Departmento di Relazioni internazionali e organizzazione internazionale dell’Università di Groningen. Al momento lavora sull’efficacia delle sanzioni dell’Unione Europea e sulle missioni internazionali dell’Unione Europea.
Claudio Bertolotti (Ph.D) analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi strategici e docente di "società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo", è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. Opinionista, autore di saggi, analisi e articoli di approfondimento sul conflitto afghano. (articolo pubblicato su Affari Internazionali - IAI)

venerdì 22 novembre 2013

I risultati della minaccia asimmetrica in Afghanistan

Gli attacchi suicidi: successo o fallimento?

disponibile in edicola

di Claudio Bertolotti 
 
Abstract
Dal 2001, il fenomeno degli attacchi suicidi in Afghanistan si è evoluto sui piani tecnico e militare imponendosi come minaccia in tutto il Paese. Esistono più tecniche classificabili come suicide - comprese le cosiddette green on blue (azioni condotte da soggetti appartenenti alle Afghan National Security Forces - ANSF); ai fini dello studio si è tenuto conto solo di quelle condotte con l’impiego di equipaggiamenti esplosivi IED (Improvised Explosive Devices).
L’argomento qui presentato è frutto di una ricerca analitica basata su fonti complementari: da un lato l’attività di studio sul campo durata circa due anni, dall’altro lato la raccolta e l’analisi delle informazioni open source e di quelle classificate rese disponibili attraverso l’Afghan War Diary (AWD) di Wikileaks.
L’approccio teorico adottato si basa sulla definizione di «attacco suicida» come azione offensiva, non-convenzionale e inserita in un contesto di guerra asimmetrica, che per propria natura prevede la morte consapevole del combattente-suicida e le cui conseguenze si ripercuotono a livello politico, strategico, operativo, tattico e psicologico.
Il combattente-suicida afghano - al di là di implicazioni ideologiche e culturali - quale contributo a livello strategico, operativo e tattico riesce a fornire? Sulla base dell’attività di ricerca, a seguito dell’analisi dei dati costituenti il database ASA (Afghanistan Suicide Attacks) creato dall’Autore relativo a 1.003 attacchi registrati dal 2001 al 2012, è stato possibile rispondere alla domanda portando un po’ di luce sull’evoluzione tecnica e sul ruolo dello “shahid” afghano.


THE RESULTS OF THE ASYMMETRIC THREAT IN AFGHANISTAN
Suicide attacks: failure or success?
 
Since 2001, the phenomenon of suicide attacks in Afghanistan has enhanced its technical and military plans, so becoming a threat throughout the country. There are many techniques that can be classified as suicide - including the so-called green on blue (actions carried out by individuals belonging to the Afghan National Security Forces - ANSF). For the purpose of this study, only those carried out with the use of Improvised Explosive Devices (IED) have been taken into account. The argument presented here is the result of an analytical research based on various sources: on the one hand, the activities of study on the field which lasted about two years and,on the other hand, the collection and analysis of both open source and classified information, which was made available through the Afghan War Diary (AWD), Wikileaks. The theoretical approach adopted is based on the definition of 'suicide attack' as an offensive and unconventional action placed in a context of asymmetric warfare, which by its nature involves the conscious death of the fighter and whose consequences have repercussions on the political, strategic, operational, tactical and psychological level. What contribution on the strategic, operational and tactical level is the Afghan suicide fighter - beyond ideological and cultural implications- able to
provide? On the basis of the research activity and of the analysis of the data which make up the Afghanistan Suicide Attacks database - created by the author and relevant to 1 003 attacks recorded from 2001 to 2012 - was it possible to find an answer to the question,shedding some light on the technical evolution and on the role of the Afghan “shahid”.

mercoledì 20 novembre 2013

CeMiSS - The taliban approach: between battlefield and peace talks


by Claudio Bertolotti

Following the examination reported on CeMiSS Quarterly Summer n. 2/2013, according to the Afghan Independent Election Commission (IEC), the candidates interested to participate to the Afghan presidential election running (planned in April 2014) are required to register between 16 September and 06 October. Although (at 8th of September) no party has yet formally announced names of presidential nominees, several names of potential contenders have emerged. These include:
• Umer Daudzai, an ethnic Pashtun, currently Afghan ambassador to Pakistan.
• Abdullah Abdullah (who ran against President Karzai in the 2009 presidential election), former Afghan foreign minister and current chief of the National Coalition of Afghanistan party.
• Abdul Rasool Sayyaf, former Mujahedeen commander and at present chief of Islamic Dawah Organization of Afghanistan.
Several local sources reported President Karzai urged Afghan political parties to support Sayyaf.
Karzai didn’t confirm his support to Karzai.
Hezb-i-Islami Afghanistan (HIA) would field a presidential candidate if their demands were endorsed.
Gulbuddin Hekmatyar, leader of the party, offered the Kabul government a two-point proposal for his group’s participation in the 2014 presidential election:
• a complete pull out of foreign troops and
• vote transparency.
What is important to underline is that while HIA’s participation is welcomed but, more important, it is the Taliban (Mullah Omar’s group) that need to be co-opted. In April, President Karzai affirmed that Taliban leader Mullah Mohammad Omar could officially run for the presidency next year on the condition that the group broke ties with al-Qaeda and renounced violence; but in August Mullah Omar himself stated he will not participate to electoral competition.
Finally, it is reported a limited participation of women in the election process, (Pajhwok). The main issues restraining women participation include lack of access to remote areas due to weather constraints, an insufficient number of mobile voter registration centers, and the presence of armed opposition groups discouraging residents from obtaining voter cards.

Security viewpoint
Afghan President Hamid Karzai met the Prime Minister Nawaz Sharif over the stalled peace process. Karzai urged Pakistan to facilitate peace talks by providing opportunities for contacts between the Taliban and the Afghan High Peace Council. Sharif assured Karzai of Pakistan’s support for peace and reconciliation in Afghanistan, a peace process that – according to Pakistan recommendations – has to be inclusive, Afghan-owned and Afghan-led. However it is uncertain whether Sharif wields sufficient influence to convince the Taliban to discuss with Afghan President Karzai.
During the visit, President Karzai also requested the release of high-ranking Taliban detainees held in Pakistan who might act as interlocutors in the peace negotiations, as Mullah Abdul Ghani Baradar (detained in Karachi in 2010).
In addition, Islamabad and Washington are weighing the option of shifting the Taliban's political office from Qatar to another country in a bid to revive the stalled reconciliation process in Afghanistan. The option came under discussion during US Secretary of State John Kerry's recent visit to Islamabad, where the two sides explored a variety of ways of breaking the deadlock in peace negotiations.
Furthermore, Afghanistan’s second Vice President Mohammad Karim Khalili visited India with a high level ministerial delegation on 20 August in order to discuss security related issues as the NATO troop withdrawal draw near. The meeting was mainly focused on enhanced military cooperation.
Afghan army and police officers are trained in Indian academies and India is planning to supply Afghanistan with vehicles and helicopters.
President Karzai has created a new team of high-profile negotiators in order to solve the stalled negotiations between Afghanistan and US. The new negotiation committee, consisting of the president’s national security adviser Rangin Dadfar Spanta, former Finance Minister Ashraf Ghani Ahmadizai and Foreign Minister Zalmay Rasul, is expected to facilitate the process toward an agreement. The new team of negotiators will discuss role, shape and legal status of US military forces and civilian trainers in post-2014 mission.
A recent increase in the activities of militants from Central Asia, such as the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), in northern Afghanistan indicates that they intend to take advantage of the security vacuum that may ensue post-2014. The magnitude of recent insurgents attacks in northern Afghanistan shows an effort to gain a country-wide presence ahead of the drawdown of NATO forces. Central Asian militants fit into this setting as experienced and trusted allies for the Taliban who have some affinity to Tajik and Uzbek communities in the area.

Latest news (on August), in brief:
• Ghazni, Kandahar, Wardak and Zabul: provincial governors met to discuss improvements to one of the most volatile parts of Afghanistan’s highway system, the Kabul-Kandahar highway.
• Herat province: local authorities reported that clashes between the security forces and Taliban militants on the Kandahar-Herat highway killed at least 83 people including eleven security forces and 72 militants.
• Farah province: a bomb exploded in near a vehicle carrying the provincial commander of the National Directorate of Security (NDS) Abdul Samada, killing and wounding civilian people and security personnel.

Brief analysis
According to a recent United Nations Mission in Afghanistan (UNAMA) report,bombs and improvised explosive devices (IEDs) are the main means of killing. Significant civilian deaths also occurred during the fighting between security forces (both foreign and local) and the Taliban. Furthermore, the total civilian casualties in the first half of 2013 increased 23 per cent compared to the same period in 2012. The number of children killed rose about 30 per cent in the same period.This increase in civilian causalities raises the question whether the Afghan forces will be able to contrast the Taliban insurgency in post-2014 Afghanistan.The stepped-up transition of security responsibilities from ISAF forces to Afghan forces and the closure of international forces’ bases was met with augmented attacks by opposition armed groups adding mainly at checkpoints, on strategic highways, secondary lines of communication, in some areas that had been transitioned and in districts bordering neighboring countries.Furthermore we must consider, on one hand, the “green on blue” attacks’ increasing (a direct threat to MAT, PAT and OCCAT advisers and trainers) and, on the other hand, the reduction of the ANSF’s terrain control capability; the last one as consequence of an increased military and political capacity of the armed opposition groups – in particular in rural and peripheral areas.
The sum of all these factors shows the ANSF limits, underlining the risk of inability to contrast the armed opposition groups expansion and, consequentially, the peril of instability in post-2014 Afghanistan, when foreign combat troops will leave the battlefield “formally”.

lunedì 11 novembre 2013

Afghanistan. L'accordo bilaterale tra formalità e opportunità

di Claudio Bertolotti

(Articolo pubblicato su osservatorioIraq)
 
Stati Uniti e Afghanistan potrebbero concludere in tempi brevi, sebbene in maniera parziale, il Bilateral Security Agreement che sancirebbe formalmente la presenza militare USA (e Nato) nell’Afghanistan post-2014. Molti i punti in disaccordo tra le parti in causa: il principale rimane la questione dell’immunità di cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) godere le truppe di Washington su territorio afgano. Una questione delicata che, sul piano teorico e formale, potrebbe limitare, se non del tutto escludere, la presenza militare al termine del mandato dell’ONU.Si tratta infatti di una tematica presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno e mezzo: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afgane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità. 
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sulla possibilità di una presenza militare statunitense su territorio afgano, dall’altro lato non vi è una visione comune sui termini che dovrebbero definire lo Status of Forces Agreement(SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afgane. 
Quella di Washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnati contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. È però opportuno sottolineare che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
Al tempo stesso non stupisce la posizione di Karzai, in cerca di sostegno da parte dell’opinione pubblica afgana e dunque spinto ad assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei confronti di un soggetto – gli Stati Uniti e con essi gli alleati della Nato – il cui favore popolare si è progressivamente eroso in maniera significativa.
 Ciò che Karzai vuole evitare, adottando un politica apertamente refrattaria alla concessione dell’immunità – di fronte al proprio popolo e al fine di non esporsi all’azione della propaganda avversaria – è l’accusa di rinuncia alla sovranità nazionale. 
Dunque una scelta strategica dettata dall’opportunità politica del momento, in cui la presenza straniera viene rappresentata, e sempre più percepita, come occupazione militare, nonostante la significativa riduzione dei contingenti militari e il formale processo di transizione (“tranche five”stage, giugno 2014).
La questione passa allora in mano al governo afgano che, per ragioni di opportunità pratica lontane dall’essere trasparenti e al di fuori del mandato costituzionale, rimanda la decisione a una costituenda assemblea tradizionale, la Loya Jirga. Da questo gioco delle parti il parlamento afgano, legittimo attore, viene dunque escluso per decisione del presidente. Scontate, quanto immediate, le proteste formali di alcuni candidati alla prossima competizione presidenziale, Abdullah Abdullah – primo antagonista di Karzai – in testa.
E allora, data la situazione, quale potrebbe essere l’eventualità più pericolosa nel caso in cui Washington e Kabul non giungessero a una soluzione di compromesso?
L’ipotesi più plausibile è quella del ripetersi di uno scenario ben noto: quello iracheno. La mancanza di un accordo tra i governi statunitense e iracheno comportò il ritiro completo delle forze di combattimento americane; oggi l’Iraq è stravolto da uno stato di guerra cronico dove le forze di sicurezza locali non sono in grado di contenere, né di contrastare, un fenomeno insurrezionale sempre più capace e aggressivo.
Ma l’Afghanistan, con le dovute precauzioni, è pur sempre il paese delle contraddizioni e dei compromessi.
Ciò che è indubbio è il fatto che un Afghanistan privato delle forze di sicurezza internazionali vedrebbe l’esercito e la polizia afgani in seria difficoltà nel tentativo di contrasto all’insurrezione dei gruppi di opposizione armata. E comunque sia, anche la ridotta presenza di istruttori e consiglieri statunitensi e della Nato poco potrebbe fare, sul piano operativo, a sostegno delle forze di sicurezza afgane. Nonostante sul piano politico vi siano le più ampie rassicurazioni sulle capacità dello strumento militare di Kabul, ormai pochi sono convinti che ciò possa concretizzarsi in un risultato favorevole, se non attraverso un processo politico-negoziale orientato al compromesso; un compromesso che, con il trascorrere del tempo, tende sempre più a spostare l’asse delle concessioni a favore del fronte taliban (e dell’insurrezione armata in generale).
Il 18 giugno dell’anno prossimo verrà formalizzato ufficialmente il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afgane.
Ma, è noto – nonostante i proclami ufficiali – che l’esercito afgano non è pronto, non ha copertura né capacità aerea, manca di capacità intelligence e logistica, sia sul piano operativo che su quello tattico, è insufficientemente integrato e necessita di equipaggiamenti per le attività di contrasto alla minaccia Ied (Improvised explosive devices – ordigni esplosivi improvvisati). Inoltre, come afferma il comandante della missione ISAF, il generale Joseph F. Dunford, tra i suoi membri è elevato il livello di tossicodipendenza. 
Nel complesso, sono stati spesi miliardi di euro, migliaia di vite umane per una guerra che non è stata vinta; comunque sia, l’impegno della transizione è stato preso anni fa: oggi, pronte o meno, le forze di sicurezza afgane dovranno assumersi l’onere della sicurezza del paese. I timori sono tanti, su entrambi i fronti, e il prezzo da pagare è già stato messo in conto da parte di tutti i soggetti interessati.
Sull’altro versante, i gruppi di opposizione armata stanno aspettando proprio il 18 giugno per raccogliere i frutti di una guerra combattuta che, allora, sarà nel suo tredicesimo anno. 
(vai all'articolo su OsservatorioIraq)