Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 21 ottobre 2010

Dialoghi segreti e prospettive afghane tra compromessi e rinunce

di Claudio Bertolotti e Chiara Sulmoni


Extensive, face-to-face discussions between Taliban commanders, the Haqqani’s network and the Afghan government are ongoing. Discussions, and not negotiates, without the involvement of the Taliban’s leader, the mullah Omar, and supported by Nato troops.
At the moment Karzai’s government is looking for an extreme solution based on dialogue and agreement with the Taliban’s movement; there are no different ways to achieve the exit strategy. Pakistan is not involved in this specific phase of the dialog because many in the Afghan government remain highly suspicious of Pakistan's role.
What will happen in the future in Afghanistan? «Reintegration and reconciliation program» could be a part of the solution but, at the same time, part of the problem: many risks, social tribal and ethnic tensions, warlords' role and drug business are factors to be considered. Reconciliation could be a possibility for the Taliban to enter the system and change the rules in southern provinces and in marginal areas building a formal and official Taliban system. The role of the tribal militias (Local police forces), especially in the pashtun areas, could facilitate this risk and could represent a clear threat for the Afghan National Security Forces. Tajiks, Hazaras and Uzbeks could reply creating similar tribal militias in order to be able to contrast possible Pashtun actions. In this situation it is clear that regional actors will take part to the internal conflicts supporting specific groups according to religious, cultural, economic and strategic reasons. Russia, Tajikistan, Uzbekistan, Pakistan, Saudi Arabia, Iran and China will be part of the next afghan internal conflicts.

«Extensive, face-to-face discussions with Taliban commanders» fondati su relazioni personali di mutua fiducia, ha dichiarato al New York Times una fonte afghana coinvolta nelle trattative tra la cerchia di Karzai ed esponenti taliban di alto livello, alcuni appartenenti alla shura di Quetta e anche – pare – un membro della rete radicale che fa capo alla famiglia Haqqani. Colloqui che, facendo seguito a quelli avvenuti nei primi giorni di ottobre in Arabia Saudita, escludono però il mullah Omar, leader di nome del movimento taliban, e il Pakistan che, fortemente impegnato a mantenere uno stretto legame con l’etnia maggioritaria pashtun – la stessa che alimenta l’insorgenza –, potrebbe mettere il bastone tra le ruote alla macchina diplomatica guidata da Stati Uniti e governo afghano.
La Nato avrebbe contribuito attivamente all’incontro avvenuto poco più di una settimana fa a Kabul, sede del comando della missione Isaf, trasferendo dal Pakistan su elicotteri sicuri comandanti mujaheddin ed esponenti dell’intellighenzia taliban, e aprendo corridoi d’accesso via terra. Sono questi i taliban moderati di cui si è tanto parlato, quelli da coinvolgere nel processo di reintegrazione e riconciliazione? Così sembra. Parliamo di dialogo, non di negoziazioni, ha tenuto a precisare Mark Sedwill, rappresentante civile della Nato in Afghanistan; ma l’apertura al dialogo, nel dinamismo statico del conflitto afghano, segna già un passo avanti.
Ora il governo di Kabul, sempre più debole e alla disperata ricerca di una via di uscita – qualunque essa sia – prova a giocarsi l’ultima carta e lo fa con l’approvazione della Comunità internazionale e della diplomazia, sostenuto dalla stessa Alleanza atlantica. Insomma tutti con Karzai. I governi alleati della Coalizione fremono sotto le pressioni delle proprie opinioni pubbliche, sempre più critiche nei confronti di un impegno armato che, dopo nove anni, anziché smorzarsi si intensifica. Il tempo stringe, e in vista di un prossimo ritiro o comunque di una contrazione delle truppe internazionali, per Karzai è urgente tessere, se non una trama di alleanze, perlomeno di tregue che permettano una riduzione della violenza. Allo stato attuale, non potrebbe da solo garantire la sicurezza nel paese.
I requisiti indispensabili per accedere al processo di reintegrazione e riconciliazione – la rinuncia in modo irreversibile al terrorismo e alla violenza, il rispetto per la costituzione e i diritti, fra cui quelli delle donne, e la rottura di ogni legame con al-Qa’ida – pare siano stati informalmente accantonati dagli stessi Stati Uniti, intenti ad applicare il linguaggio della exit strategy e del processo di «afghanizzazione» a questa cosiddetta «guerra necessaria», con la speranza di venirne a capo. Anche se si tratta solo di incontri preliminari, questo non è un buon segno. Insieme alla ripresa dei bombardamenti aerei – che il precedente comandante Isaf, il generale Stanley McChrystal aveva fortemente limitato per evitare vittime fra civili e tensioni con il governo Karzai – questa prospettiva potrebbe fortemente compromettere una delle strategie a lungo termine su cui si è tanto insistito, «la conquista dei cuori e delle menti degli afghani». Non molti infatti sono impazienti di vedere gli «studenti» nuovamente legittimati a imporre la propria autorità, neppure nel sud a maggioranza pashtun (l’etnia dei taliban), che è la roccaforte del movimento. Nel frattempo, l’acuirsi delle ostilità e delle violenze, e anche delle rappresaglie e delle imboscate da parte degli insorti che rispondono così all’offensiva militare congiunta della Coalizione e dell’esercito afghano, colpiscono anche innocenti, e inaspriscono i rapporti con una popolazione già provata. Lo sdoganamento da parte dell’Occidente delle trattative con quello che sul campo di battaglia è il nemico, fanno pensare a un cambiamento di rotta innescato dalla considerazione che ormai la guerra in Afghanistan richiede un impegno troppo gravoso per gli Stati che compongono la Coalizione internazionale. In altri termini: il gioco non vale la candela. O meglio: questa candela, brucia troppo lentamente. L’Afghanistan, potrebbe così davvero correre il rischio di ritrovarsi travolto da una guerra civile, forse anche di livello regionale; i presupposti sono tutti là, schierati sul terreno.
Proviamo ad affrontare la prospettiva afghana con occhio affetto da ipermetropia pessimistica.
Partiamo dal presupposto che i colloqui tra le parti possano effettivamente portare a una soluzione di compromesso; non sarebbe certo la fine dei problemi per il Paese. Quale infatti lo scenario afghano nel futuro immediato e a medio termine?
Un certo numero di taliban, mujaheddin e militanti dei gruppi di opposizione che compongono l’insurrezione, riabilitati dal processo di reintegrazione e riconciliazione, verrebbero nominati governatori o inseriti nell’apparato statale in posizioni di vertice.
1. Il Sud, roccaforte taliban.
L’intensità dei combattimenti potrebbe temporaneamente calare, in cambio però di una (in)formale autonomia dei distretti e delle provincie gestiti dai leader provenienti dalla classe dirigente del movimento taliban. Ma poiché non tutti i vari gruppi di opposizione – ideologici o meno – saranno scesi al compromesso politico, la lotta per il potere e il controllo della periferia (contrapposizione centro-periferia) tornerà a incidere pesantemente sulla sicurezza; vecchi attriti e antiche dispute di carattere etnico e tribale – che nel quadro del conflitto attuale sono passate in secondo piano – risalirebbero a galla; tanto per citarne un paio quelli tra pashtun e tajiki e tra pashtun durrani e ghilzai. A questo si sommi la lotta intestina che inevitabilmente affiorerebbe all’interno della stessa compagine taliban fra un’ala più pragmatica e una più ideologica. Tra coloro che riconosceranno il governo di Kabul e gli irriducibili.
Non si smetterà dunque di combattere tout court. Per far fronte alla violenza causata dagli attriti sopraelencati, e per ovviare a una prevedibile insufficienza – o inefficienza – di forze di sicurezza governative, un nuovo attore potrebbe entrare in scena: una sorta di polizia locale aggiuntiva. Parliamo delle Lashkar, o più correttamente – ma non politicamente opportuno – milizie tribali. Una variabile del conflitto, questa, già introdotta da Petraeus in Iraq, almeno per quel che concerne il principio; una realtà anche in Pakistan, dove non è stata però risolutiva. Si tratterebbe di apparati che, scelti e reclutati dai rappresentanti delle diverse comunità locali e formalmente sottoposte al controllo del Ministero dell’Interno, non si discosterebbero molto dalle bande armate a disposizione dei notabili locali, spesso legati al narcotraffico, al contrabbando di armi e uniti da interessi di varia natura a quegli stessi elementi ex-taliban forse ormai divenuti funzionari e dirigenti dello Stato. Il problema, con queste milizie, è che dovrebbero trovare una propria collocazione finale. Inserirle nella gerarchia delle forze di sicurezza nazionali, come l’esercito e la polizia, non sarebbe impresa facile, a causa di considerazioni di natura etnica ma anche perché diverrebbero fortemente avvezze all’autonomia.
2. Nord e Ovest del Paese.
I potenti di turno (tajiki, uzbeki, hazara), fra cui anche narcotrafficanti, signori della guerra e «rispettabili» uomini d’affari e politici che ora dettano legge anche grazie all’assenza del governo o in un clima di laissez-faire, non rimarrebbero certo ad assistere passivamente al riarmo dei nemici storici (i pashtun, e non solo i taliban); e un processo di spiralizzazione di queste tensioni sarebbe innescato proprio dal riarmo delle milizie tribali, gli eserciti privati dei signori della guerra che tanto hanno fatto per spingere il Paese nell’abisso di un conflitto trentennale, e dalla lotta per gli interessi di natura principalmente economica a cui, recentemente, si sono aggiunti quelli appetibili legati alle ricchezze minerarie locali – fra tutti, il litio dei nostri computer e telefoni cellulari – e alle risorse energetiche in transito – condotte di gas naturale –.
Nel complesso e aleatorio mondo delle alleanze afghane, Lashkar legittimate dallo Stato potrebbero alla lunga divenire un ulteriore ostacolo per l’affermazione dell’autorità centrale di Kabul nelle periferie e nelle provincie, già difficilmente raggiungibili anche fisicamente, a causa di una logistica fortemente frammentaria e a una ricostruzione rallentata da azioni di sabotaggio da parte della guerriglia – si pensi a strade e ponti, target principale per gli Ied degli insorti –.
A tutto ciò si aggiunga l’incognita delle forze di sicurezza, come si presentano allo stato attuale. Un esercito composto principalmente da tajiki – nazionale di nome ma non di fatto – e che rappresenta una problematica perché si troverebbe in una posizione difficile, in contrapposizione agli interessi locali (spesso e volentieri di natura etnica) e difficilmente riconosciuto come legittimo da parte delle comunità pashtun giù al sud dove si troverebbe naturalmente a operare; a meno che il processo di riconciliazione attraverso il compromesso non comporti anche una spartizione dell’Afghanistan a livello territoriale, con un sud pashtun dichiaratamente taliban – sebbene formalmente «moderato» –, e una ridistribuzione concordata dei poteri a livello politico. La situazione potrebbe divenire più instabile ed esplosiva di quella attuale, con prevedibili influenze esterne da parte di potenze e gruppi regionali a peggiorare la situazione. Nessuno rimarrebbe semplicemente a guardare ma, secondo un copione ormai noto, seguirebbero pressioni politiche, formali e informali, volte a condizionare le scelte strategiche del Paese o, meglio, delle etnie componenti l’Afghanistan.
3. Fattore esterno.
La Russia, con le altre repubbliche ex-sovietiche confinanti con l’Afghanistan, guarderebbe ai tajiki e agli uzbeki (fortemente legati al narcotraffico). L’Iran spingerebbe anch’esso sui tajiki (di cultura e lingua persiana) e sugli hazara (sciiti). L’Arabia Saudita e il Pakistan premerebbero entrambi sui gruppi pashtun (sunniti). L’India, in competizione con il Pakistan, cercherebbe di accentuare le divisioni interne e per ridurre l’influenza pakistana e aumenterebbe la propria presenza fisica sul suolo afghano attraverso politiche di natura sociale e legate alla ricostruzione infrastrutturale del Paese. La Cina guarderebbe ai propri interessi legati alle concessioni minerarie e alla possibilità di uno sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo attraverso accordi formali bilaterali con Kabul e informali con i gruppi di potere locale.
Il risultato finale sarebbe il protrarsi di una guerra civile manipolata dalle potenze regionali e finanziata dai commerci illeciti – narcotraffico – e leciti – risorse minerarie ed energetiche. Il nuovo-vecchio conflitto a partecipazione regionale, una storia da cui non si riesce a venir fuori.
Questo è il peggiore degli scenari possibili, ma quel che conta in questo momento è l’avvio del dialogo seppur orientato verso un compromesso basato su reciproche rinunce e amare prospettive future. In questo contesto, poco responsabile è stata la pubblicità propagandistica data dalla Nato a un evento che sarebbe dovuto rimanere riservato. Tanto più che a condurre il gioco sono i legittimi soggetti titolari: gli afghani, dell’una e dell’altra parte.
Ma peggiore degli scenari possibili non significa futuro inappellabile. Nel Paese languono questioni irrisolte, connaturate e sempre sul punto di trasformarsi in conflitto aperto, che gli attuali tentativi di negoziazione – indipendentemente dal loro esito – non potranno eliminare. Nel frattempo però, si stanno perlomeno identificando gli interlocutori di domani.

20 ottobre 2010

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