Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 5 dicembre 2011

Al via la seconda Conferenza di Bonn. Assente il Pakistan*

*articolo pubblicato su Grandemedioriente

In un mondo in cui la tendenza è quella di scelta – spesso con molta semplicità – tra due categorie (buono-cattivo, positivo-negativo, successo-fallimento) ben si inserisce la questione afghana. La giusta via “teorica”, basata su sicurezza, economia, costruzione politica, riconciliazione, governance, diritti umani e collaborazione regionale, si contrappone alla poco convincente soluzione “pratica” della transizione accelerata e del ritiro incondizionato degli attori internazionali. Due alternative in netta antitesi. Il fatto è che stabilizzare e (ri)costruire l’Afghanistan è una missione complessa e complicata: le soluzioni adottate per risolvere un problema, in genere, sono state spesso all’origine di ulteriori e ben più gravi disequilibri. La seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre 2011 deve riconoscere che le soluzioni a breve scadenza non possono portare benefici sul medio-lungo periodo; detto in altri termini, la transizione a tempo deve necessariamente basarsi su un concreto e significativo sostegno all’Afghanistan sul lungo termine. In assenza di questo riconoscimento lo scenario più probabile (e forse più pericoloso) è quello di una nuova e più cruenta guerra civile afghana. Ma proprio l’appuntamento di Bonn è stato anticipato da un grave “incidente” che ha portato all’uccisione – da parte statunitense – di ventiquattro soldati di frontiera pakistani. Un errore militare, dalle amare conseguenze politiche e diplomatiche, che ha posto Pakistan nella condizione di poter puntare il dito nei confronti degli Stati Uniti. Crescono le proteste pakistane sui fronti popolare e diplomatico; lo stesso capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, si è spinto al punto di ordinare all’esercito di aprire il fuoco sui militari statunitensi che dovessero varcare il confine. Non è chiaro dove porterà questo atteggiamento, da più parti ritenuto “eccessivo”; di certo vi è che il Pakistan, in forma di protesta, ha colto l’occasione per giustificare la propria assenza alla Conferenza di Bonn. Islamabad non vuole che il suolo del “fratello Afghanistan” venga utilizzato per colpire lo stesso Pakistan, queste le parole – tutt’altro che concilianti – del primo ministro Gilani. La conseguenza più immediata è stata la decisione di allontanare le truppe statunitensi dalla base aerea di Shamsi, nel Baluchistan, senza peraltro comportare alcuna rilevante ripercussione sulla condotta delle operazioni nell’area. Il segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton, nel definire “tragico” l’imbarazzante evento, si è dichiarato dispiaciuto di quanto accaduto, sostenuto in questa affermazione dallo stesso Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha voluto porre in evidenza come l’evento, per quanto grave, non deve però distrarre i partecipanti dall’importante conferenza; Karzai, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, ha invece reagito definendo la scelta di boicottare il summit da parte di Islamabad come un “tentativo di ostacolare i negoziati con i taliban”. Toni caldi, per quanto formali. Dieci anni dopo la prima Conferenza di Bonn, con gli stessi principali attori protagonisti e gli stessi importanti esclusi – i taliban –, la Comunità internazionale è chiamata in causa per il futuro dell’Afghanistan; al Pakistan, in questo gioco delle parti, è riconosciuto il ruolo di soggetto primario. Una nuova conferenza che ha tra i suoi obiettivi più ambiziosi quello di dimostrare l’impegno della Comunità internazionale anche oltre il 2014, per quanto i rapporti Stati Uniti-Afghanistan e Stati Uniti-Pakistan appaiano fragili e vacillanti. Date le premesse può essere corretto affermare che l’assenza del Pakistan non farà molta differenza. Ciò che accade sul campo di battaglia e a livello di accordi negoziali tra le parti in causa (Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e taliban) è assai più significativo di quanto formalmente avviene nei pubblici incontri internazionali. Il fatto che un rappresentante del Pakistan non sia tra i delegati stranieri non significa rinuncia alla possibilità di accordo negoziale tra le parti in conflitto, il vero e importante end-state. Nel grande gioco delle parti, anche l’Emirato Islamico dei taliban ha voluto far sentire la propria voce ponendo pubblicamente alcuni quesiti alla Nato e agli Stati Uniti: «quali misure sono state prese per garantire l’incolumità della popolazione afghana? Quante industrie sono state costruite per liberare gli afghani dalla dipendenza dei prodotti di importazione e quali hanno concretamente stimolato l’economia locale creando posti di lavoro? Quanti centrali elettriche sono in grado di garantire l’autonomia energetica di una singola provincia o città? Quanti progetti di sviluppo agricolo e di distribuzione idrica sono stati sviluppati? Quanti ospedali sono stati creati per assistere la popolazione afghana consentendole di non dover cercare altrove le cure mediche?». La conferenza di Bonn, e questo la propaganda taliban lo ha posto in giusta evidenza, si affaccia su una realtà che è frutto di una decennale politica di guerra caratterizzata da rimedi e soluzioni a breve termine, decisioni e approcci vacillanti e limitata capacità di coordinamento tra attori nazionali e internazionali. Kabul continua a chiedere sostegno economico, politico e militare senza peraltro aver definito un programma di sviluppo trasparente (e credibile). Un recente studio della Banca mondiale ha evidenziato come l’Afghanistan necessiterà di circa sette miliardi di dollari all’anno per pagare le proprie forze armate nel momento in cui la Nato se ne dovesse andare; dollari che – pena una ancora più grave guerra civile – saranno a carico della Comunità internazionale. Così, mentre la diplomazia prosegue sul proprio binario, i mujaheddin afghani – che oggi si chiamano taliban – continuano a combattere quella che è ormai una cronica guerra civile transfrontaliera sotto l’insegna della lotta di liberazione.

di Claudio Bertolotti

*articolo pubblicato su Grandemedioriente


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