Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

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sabato 25 maggio 2013

Le ragioni per colpire Kabul. Commando-suicida nella capitale afghana: tra i feriti grave una funzionaria italiana


di Claudio Bertolotti

INSTANT ANALYSIS
articolo pubblicato su OsservatorioIraq

Un commando-suicida colpisce Kabul nelle aree di Wazir Mohmmad Akbar Khan e Kart-i-se, il cuore della capitala afghana, provocando 4 vittime e 13 feriti tra le forze di sicurezza locali e la popolazione civile. Ferita gravemente anche Barbara De Anna, una funzionaria italiana dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), immediatamente soccorsa e ricoverata presso l’ospedale di Emergency e successivamente trasferita in quello statunitense di Bagram.
È il secondo attacco di questa tipologia registrato nell’ultima settimana nella capitale afghana (dopo quello del 16 maggio); il sesto dall’inizio dell’anno a cui se ne aggiungono ulteriori due falliti (il triplo rispetto al 2012).
Fonti locali confermerebbero due esplosioni in successione avvenute in prossimità dell’ospedale dei servizi di sicurezza governativi (Nds, National Directorate of Security) e della sede dell’Afghan public protection forces (APPF), quest’ultimo sarebbe l’obiettivo principale dell’attacco sebbene sia stata riportata la presenza di attaccanti anche all’interno della vicina guest-house utilizzata dal personale delle Nazioni Unite; il portavoce dei taliban, Zabihullah Mujahid, ha invece dichiarato che obiettivo era una struttura utilizzata dalla Cia.
Quella dei commando-suicidi è la tecnica di attacco maggiormente utilizzata dai gruppi di opposizione armata afghani – taliban in primis – nelle aree urbane di Kabul, Kandahar e Helmand; i taliban avrebbero rivendicato l’azione verosimilmente portata a termine dalla cosiddetta Kabul Attack Network – dipendente dal gruppo Haqqani – operativa nell’area urbana e suburbana della capitale. Kabul, è evidente, rappresenta un importante obiettivo, strategico e simbolico al tempo stesso; qui, dove le opportunità di colpire obiettivi di alto profilo sono elevate e garantiscono una eco mediatica amplificata, negli ultimi quattro anni la collaborazione tra i gruppi di opposizione avrebbe portato a un sensibile aumento dei cosiddetti «attacchi spettacolari»: gli attacchi suicidi attirano l’attenzione dei media internazionali, e Kabul è la città in cui vi è la più alta concentrazione di obiettivi simbolici (edifici governativi, sedi diplomatiche, il comando della missione Isaf) e, in particolare, di giornalisti stranieri. Questa tipologia di attacchi ha il potere di attirare l’attenzione dei media internazionali, e a Kabul anche le azioni relativamente fallimentari possono risultare vantaggiose per i gruppi di opposizione armata.
Quelle che si muovono sul moderno campo di battaglia afghano, parallelamente alle altre tecniche della guerriglia, sono unità commando costituite da più combattenti-suicidi affiancati e sostenuti da elementi operativi; vere e proprie operazioni militari, in cui agli equipaggiamenti esplosivi si aggiungono le armi leggere e di sostegno dei nuclei combattenti. Una tecnica, già utilizzata dai pasdaran iraniani nella guerra contro l’Iraq e dai combattenti in Kashmir, che ha dato prova della propria efficacia.
L’episodio, ancora una volta, ha messo in evidenza i limiti della sicurezza della città capitale dell’Afghanistan, e quanto il governo Karzai non sia in grado di contrastare le continue e crescenti minacce. Un risultato eccezionale, quello ottenuto ancora una volta dai gruppi di opposizione armata; al di là degli effettivi risultati tattici prevale la dimostrata efficacia nel colpire e la capacità di attirare l’attenzione mediatica internazionale. Un evento che suggerisce, anticipandoli, gli intenti offensivi dei taliban e i rischi concreti di un Afghanistan post-Nato; detto più esplicitamente: aumenteranno nel breve periodo le azioni offensive (e dimostrative) nella capitale afghana.

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martedì 13 settembre 2011

13 settembre 2011: Commando suicida a Kabul

di Claudio Bertolotti

Il Kabul Attack Network (KAN), l'unità operativa composta dagli elementi più radicali guidati dall'organizzazione Haqqani, torna a far parlare di sé; lo fa, come sempre, in maniera violenta e spettacolare.
L’attacco che il 13 settembre 2011 ha colpito il cuore nevralgico – e in teoria il più sicuro – della capitale Kabul ha visto un commando suicida taliban lanciarsi contro alcuni importanti obiettivi simbolici, tanto della Repubblica islamica dell’Afghanistan quanto delle forze militari straniere della Nato. Il comando Isaf, l’ambasciata statunitense, il comando della polizia di frontiera e un edificio del servizio di sicurezza afghano – il National Directorate of Security – , posti nel quartiere blindato di Wazir Akbar Khan, sono stati oggetto dell’azione suicida condotta da alcuni "attentatori-Shahid" sostenuti da un gruppo di supporto operativo armato di razzi e armi leggere e medie.
L’azione di contrasto delle forze di sicurezza della Nato, in simbolica collaborazione con le forze di sicurezza afghane, ha richiesto l’intervento di elicotteri da combattimento e ben venti ore per poter dichiarare l'area "bonificata" dalla presenza di ulteriori attaccanti. Le vittime ufficialmente rimaste sul terreno sono ventisette, tra queste undici insorti, undici civili, cinque poliziotti; sei i soldati Isaf feriti.
Per chi conosce Kabul e ha avuto modo di entrare nel quartiere blindato in cui sono ospitati i più importanti edifici governativi, le ambasciate straniere e il comando Isaf, è difficile credere che un gruppo di combattenti taliban sia riuscito a penetrare le fitte maglie di sicurezza che garantiscono – o meglio dovrebbero garantire – l’inacessibilità dell’area.
E invece, a conferma di quanto la situazione sia in costante e inarrestabile deterioramento, ancora una volta i taliban sono riusciti a dimostrare, in un momento in cui l’attenzione e l’allerta dovrebbero essere massimi, quanto la volontà di agire e la capacità di muovere sul moderno campo di battaglia siano le carte vincenti in questo conflitto sempre meno asimmetrico.
La città di Kabul è, almeno nei documenti ufficiali presentati a un’opinione pubblica mondiale sempre più stanca e distratta, sotto la responsabilità delle Afghan National Security Forces insieme ad altre sei province recentemente rientrate nel processo di transizione. E proprio Kabul è l’obiettivo che, modificando il trend evolutivo degli attacchi suicidi in Afghanistan e più di ogni altra provincia passata sotto la responsabilità del governo di Kabul, è stato colpito dall’ultima (solo in termini temporali) ondata di violenza.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli attacchi nella capitale in concomitanza con il prorompere della nuova politica adottata dalla nuova generazione di combattenti afghani, i “neo-taliban”. La strategia delle azioni spettacolari è prioritaria per i gruppi di opposizione; il fatto che avvengano in aree dove alta è la concentrazione di forze armate e di polizia, locali come straniere, è sintomatico della volontà totale di colpire i simboli di un potere ritenuto corrotto, debole e sostenuto da una forza militare considerata di occupazione.
Gli attacchi continueranno, focalizzandosi nelle regioni del sud, sud-est e del centro per il prossimo futuro, con un costante aumento nelle regioni orientale e centrale, ma vari indicatori suggeriscono che il fenomeno interesserà anche le altre regioni. Dispersione e incidenza aumenteranno a medio termine o, comunque, rimarranno attestate sulle attuali cifre. È infatti nell’interesse dei gruppi di opposizione allargare la distribuzione spaziale degli attacchi creando una condizione di disorientamento e paura generalizzata tra la popolazione, concentrare l’attenzione dei media e costringere le forze di sicurezza a “diluirsi” sul territorio per ridurne la capacità operativa e poterle meglio colpire.
Ma allargare la cosiddetta area di operazione significa implicitamente aumentare il rischio di coinvolgimento della popolazione afghana. Detto in altri termini, vuol dire accettare il rischio di provocare, in maniera più o meno diretta, vittime innocenti. Il gioco pare proprio che valga la candela, dal momento che è ormai evidente quanto la capacità di azione delle forze di sicurezza (locali e straniere) non sia in grado di contrapporsi efficacemente. In altre parole, è l’azione alla quale non segue la reazione.
Un’azione militare dal marcato retrogusto politico. I taliban discutono oggi al tavolo negoziale - in attesa di un ufficio diplomatico fuori dei confini afghani - del futuro dell’Afghanistan; lo fanno con Karzai, con i rappresentanti della Nato e con quelli degli Stati Uniti. Forse si può intravvedere nel futuro prossimo un’evoluzione in termini positivi del conflitto afghano? Difficile dirlo, quel che è certo è che gli stranieri vogliono andarsene (a parte un “piccolo contingente statunitense di 25.000 uomini che rimarranno a guardia delle basi strategiche – Bagram e Kandahar? –) e i taliban pretendono una fetta del potere che hanno dimostrato di essersi guadagnati sul campo di battaglia. Qualcuno sarà in grado di impedirglielo? No, almeno osservando le statistiche degli attacchi e i dati relativi alla presenza taliban sull’intero territorio afghano.




foto AFP PHOTO Massoud HOSSAINI - Map - BBC news