Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 9 novembre 2016

LA TRASFORMAZIONE DEL MOVIMENTO TALEBANO (CeMiSS OSS 2/2016)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1


ISBN 978-88-99468-16-3 

La morte del mullah Mansour e la nomina del nuovo vertice dei talebani: il mawlawì Haibatullah Akhundzada
Sul fronte interno insurrezionale, recenti dinamiche hanno imposto una complessiva riorganizzazione interna.
Lo scorso 22 maggio un attacco drone statunitense ha ucciso il leader dei talebani nella provincia pachistana del Belucistan; è morto così il mullah Aktar Mohamad Mansour, discusso capo dei talebani afghani succeduto allo storico leader del movimento, il mullah Mohammad Omar, deceduto nel 2013 ma la cui dipartita fu resa nota due anni più tardi, nel luglio del 2015.
Al vertice del movimento subentra come Amir-al-Momineen (‘Emiro-comandante di tutti i fedeli’) il mawlawì Haibatullah Akhundzada, luogotenente di Mansour; un ruolo, almeno in apparenza, riconosciuto all’unanimità dal Supremo Consiglio (shura) taliban.
Chi è il nuovo capo dei taliban? Haibatullah è un mujaheddin della cosiddetta vecchia guardia, ispiratore dello stesso mullah Omar di cui è stato consigliere; una figura molto rispettata e influente sul piano religioso, essendo un teologo di alto rango (il titolo mawlawi lo indica come ‘dotto religioso’). Un profilo che nel complesso è a prevalenza giuridico-religiosa. Un fattore, questo, che agevolerebbe il processo di riunificazione del movimento (frammentato durante la leadership del predecessore Mansour) attraverso un approccio fideistico-simbolico.
E sebbene molti analisti abbiano posto in evidenza l’assenza di esperienza operativo-strategica del mawlawì Haibatullah Akhundzada, quel che potrebbe fare la differenza è il fattore tribale derivante dal forte legame che questi ha con le popolazioni pashtun; in particolare, il nuovo capo dei talebani è originario del distretto di Panjwai (provincia di Kandahar), ed è membro della tribù Noorzai a cui appartengono molti di quegli oppositori a Mansour che hanno alimentato il deleterio processo di frammentazione. Un fattore, quello tribale, decisivo nella sua nomina e nel processo di dialogo tra le parti; una scelta che viene presentata come condivisa e rappresentativa delle varie correnti interne al movimento.
Al momento è da comprendere se Haibatullah deciderà di proseguire la lotta insurrezionale e attraverso quali vie; nello specifico, è necessario tenere in considerazione le dinamiche di riequilibrio dei rapporti di forza tra i membri dell’intellighenzia talebana, il crescente peso della Rahbari shura – il più importante e influente tra i Consigli talebani – e il ruolo del Pakistan nel processo decisionale.
Non sarà facile, per il nuovo leader del più importante movimento insurrezionale, cambiare approccio e policy sulla condotta della guerra e sul ruolo dei talebani nella lotta per il potere senza il sostegno degli altri attori chiave. L’autorità di Haibatullah e la sua legittimità derivano dalla nomina approvata dalla Rahbari shura e non dal fatto di essere stato indicato dal mullah Omar, la figura carismatica la cui autorevolezza non può essere messa in discussione; ciò significa che anche lui, come il suo predecessore Mansour, dovrà affrontare alcune difficoltà, aggravate in parte dall’assenza di esperienza in leadership pratica, che lo porteranno ad affidarsi in maniera significativa ai vari organismi talebani per poter guidare il gruppo in maniera efficace.
E sebbene Haibatullah sia descritto come un hardliner, ciò non significa che questo possa avere automatiche conseguenze su un cambio complessivo di policy. Lui stesso ha approvato le principali decisioni strategiche del suo predecessore, ha sostenuto alcune decisioni delicate, come la legittimità del jihad contro i suoi ‘concorrenti’ o le opposte fazioni, e ha approvato con specifiche direttive la policy sull’educazione femminile; sarebbe dunque bizzarro se proprio lui decidesse di cambiare in maniera radicale ciò che ha ereditato da Mansour.
Da una parte, non è escluso che la possibile dipendenza di Haibatullah nei confronti della ‘burocrazia’ talebana possa dare una spinta al processo evolutivo del movimento portandolo verso un modello maggiormente istituzionalizzato; una evoluzione orientata a un modello strutturato di decision-making che potrebbe essere l’unica soluzione per mantenere una parvenza di unità del movimento (unità che in realtà non è mai esistita).
Dall’altra parte, il crescente ruolo dell’apparato burocratico talebano non significa che il movimento stia muovendo verso una qualche forma di ‘democrazia’ interna per quanto riguarda i processi decisionali poiché i singoli comandanti o leader non hanno uguale peso, influenza, autorevolezza; al contrario, il loro ruolo dipende dalle capacità individuali, dai legami tribali, dalla provenienza geografica (ad esempio i leader provenienti dall’area di Kandahar – i ‘kandahari’ – hanno maggior peso politico e potere) e, in particolare, dall’esperienza militare.
Alla ricerca di una stabilizzazione degli equilibri interni
Nella conferma di un ruolo che ebbe già con Mansour, il braccio destro designato dell’Emir Haibatullah Akhundzada è Sirajuddin Haqqani, comandante della cosiddetta ‘Haqqani network’ vicina ad al-Qa’ida e figlio di Jalaluddin Haqqani, figura di rilievo del fronte insurrezionale, morto nel 2014.
L’altro stretto collaboratore è una novità significativa, trattandosi del mullah Muhammad Yaqoub: figlio venticinquenne del mullah Omar, che però occupa una posizione che è priva di un concreto potere e di un’effettiva capacità di controllo sul movimento. Ma si tratta in questo caso di un’apertura alla componente taliban ostile al mullah Mansour e che guardava con favore alla fazione guidata dal mullah Mohammad Rassoul, l’ex governatore taliban di Nimruz e responsabile della conquista di Kunduz del settembre 2015 (al momento potrebbe essere detenuto in Pakistan).
Una scelta politica, quella del mullah Yaqoub, che aprirebbe a quella componente sinora esclusa – e che non riconosceva la legittimità della precedente leadership – e dimostrerebbe una volontà di riunificazione di un fronte insurrezionale frammentato.
È evidente quanto sia sbilanciato il rapporto di poteri tra i tre componenti della leadership di vertice: un capo, il mawlawì Haibatullah, dal ruolo religioso e simbolico; un suo vice, il mullah Yaqoub, privo di capacità sostanziale; il secondo vice, Sirajuddin Haqqani, comandante della componente militare, legato ad al-Qa’da e ad altri gruppi di opposizione armata insurrezionali e un’elevata capacità di auto-finanziamento.
Chi sono davvero gli uomini al fianco del nuovo capo dei talebani?
Il vice-Emiro Sirajuddin Haqqani è uno dei pochi comandanti talebani di alto livello e con un ruolo di guida a non essere originario dell’Afghanistan del sud, sebbene la sua figura e il suo ruolo non siano unanimemente apprezzati all’interno del movimento. La sua nomina è stata accolta con favore dai gruppi della cosiddetta Loya Paktia (Paktia, Paktika, Khost, parte di Logar e Ghazni) ma guardata con sospetto altrove a causa dei suoi legami con i militari e i servizi segreti pakistani (ISI). Il suo ruolo nell’ambito decisionale è elevato e rafforzato dai risultati e dalle capacità operative della sua organizzazione militare chiamata ‘Haqqani network’, capace di ottenere importanti risultati sul campo di battaglia attraverso azioni spettacolari ed efficaci nel sud-est del paese e all’interno della capitale Kabul.
Inoltre, a causa della limitata esperienza sul campo di battaglia di Habaitullah, Sirajuddin Haqqani ha visto accrescere il suo ruolo nella gestione delle questioni militari, in particolare nella fase di pianificazione operativa.
Il vice-Emiro Mullah Muhammad Yaqub nell’aprile del 2016 è stato nominato comandante militare per le 15 province del sud e dell’est (l’attuale posizione di comando non è confermata); una scelta che può essere letta come una risposta alle crescenti preoccupazioni dei capi militari delle aree del sud e del sud-ovest nei confronti del maggiore peso militare di Sirajuddin Haqqani (in parte dovuto alla non appartenenza al gruppo dei ‘kandahari’) conseguente alla sua nomina quale responsabile degli affari militari del movimento.
È importante citare il fatto che Yakub, avendo trascorso la maggior parte della sua vita adulta in Pakistan (dove ha effettuato studi teologici presso le madrase), è considerato lontano dalla realtà afghana; una permanenza in Pakistan che però è stata funzionale alla sua formazione teologica e che gli consente oggi di godere di un ottimo rapporto con Haibatullah sotto la cui guida si è formato; questo fatto, certamente non secondario, potrebbe lasciare intuire una certa accondiscendenza nei confronti del sul ‘maestro-Emiro’. Fattori questi che, nel complesso, lo hanno portato a godere della fedeltà e del supporto di un significativo numero di comandanti militari e leader di rilievo, tra i quali Gul Agha, capo della ‘Commissione Finanziaria’; Qayum Zaker, un comandante molto rispettato nel sud; mawlawi Shirin, a capo della compagine militare nelle 19 province dell’est e del nord, e Nuruddin Turabi, ex ministro della giustizia.
Le altre figure chiave del movimento sono Amir Khan Muttaqi, capo della ‘Commissione per la Cultura’, membro della Rahbari Shura e alla testa dell’organizzazione mediatica dei talebani; mawlawi Hamdullah Nanai, ex ministro della comunicazione, da Kandahar, influente sul piano della sicurezza e su quello militare; Sadar Ibrahim, capo della ‘Commissione Militare’, da Helmand; Amir Khan Haqqani (non appartenente al clan Haqqan), vice-capo della ‘Commissione Militare’; Abdul Qayum Zaker (già detenuto a Guantanamo) ex capo della ‘Commissione Militare’ che guidò le forze talebane durante il ‘surge’ statunitense nel 2009-2012; mawlawi Abdul Kabir, ex capo militare della zona est durante l’epoca talebana; mullah Muhammad Abbas Akhund, ex ministro della salute, attualmente a capo della ‘Commissione per la Salute’ e punto di riferimento delle organizzazioni internazionali per gli aiuti umanitari per l’accesso alle aree sotto il controllo talebano; Gul Agha (anche noto come Hedayatullah), capo dell’iportante ‘Commissione Finanziaria’, dall’Helmand.
Analisi, valutazioni, previsioni
Le dinamiche interne al movimento talebano procedono indipendenti dagli sviluppi sul campo di battaglia che, nel corso del 2016 e attraverso l’offensiva di primavera intitolata al defunto mullah Omar, hanno portato il movimento insurrezionale ad ottenere risultati ancora favorevoli tra i quali si registra nel mese di settembre l’assedio di Tirin-Kot, capitale provinciale di Oruzgan, e la conferma da parte del governo locale dell’annientamento di tutte le forze a difesa della città; un episodio che segue i risultati raggiunti a Helmand un mese fa, al nord lo scorso anno con la conquista temporanea di Kunduz (quinta città dell’Afghanistan), l’escalation di violenza nella capitale Kabul e il sostanziale monopolio della violenza nel sud e nell’est.
Nel complesso, come confermato nel mese luglio al Congresso degli Stati Uniti dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), dopo 15 anni di guerra i talebani – nonostante un processo di frammentazione interno che ne minaccia la capacità di comando e controllo – sono oggi in grado di controllare più territorio di quanto non lo siano stati dall’inizio dell’intervento militare statunitense nel 2001. Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite ha comunicato a giugno che la sicurezza generale del paese è peggiorata in maniera significativa negli ultimi mesi, confermando un trend negativo per quanto riguarda le capacità del governo afghano di mantenere il proprio controllo nella aree meridionali, orientali e periferiche del paese.
Nel complesso, è in fase di recrudescenza anche la situazione sui piani economico, politico e, più in generale, della sicurezza. Una situazione complessiva che complica e rallenta l’auspicato processo di pace al momento in fase di stallo, in attesa che i talebani – e la loro nuova leadership – trovino una ragione per sedersi a quel tavolo negoziale aperto dal Quadrilateral Coordination Group (Afghanistan, Cina, Pakistan e Stati Uniti) che sinora li ha visti assenti.


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