di Claudio Bertolotti
Primavera 2013. Come ogni anno, la bella stagione segna l’inizio dell’offensiva
insurrezionale e della coltivazione di oppio: due elementi tra di loro
strettamente correlati che interessano, per il dodicesimo anno consecutivo,
anche la provincia di Herat – l’area di operazioni del contingente italiano –,
dove i taliban sono legati in un rapporto di collaborazione-competizione con i
locali “warlord” e “druglord” e le molteplici organizzazioni criminali. In
particolare, nei distretti di Farah – dove la coltivazione di oppio è
largamente diffusa e di tipo estensivo – la presenza di organizzazioni legate
al narcotraffico è endemica e fortemente radicata, nonché facilitata
nell’esportazione dalla vicinanza con il confine iraniano.
Un recente report dell’Onu, intitolato “Afghanistan
Opium Risk Assessment 2013″, confermerebbe la correlazione tra
scarsa assistenza all’agricoltura e coltivazione di oppio: i villaggi che non riceverebbero
assistenza ne produrrebbero di più rispetto a quelli che avrebbero ottenuto un
contributo materiale o incentivi. Nel complesso, le province di Farah, Baghdis
e Nimroz sono quelle in cui è stato registrato un incremento moderato nella
produzione di oppio, mentre un aumento significativo ha caratterizzato la
provincia di Herat (area di Shindand). Più a sud e a est, sono le province di Helmand e Kandahar, aree di responsabilità delle forze
britanniche e statunitensi, quelle particolarmente interessate al fenomeno. Secondo
il report, anche aree in cui al momento non esistono queste colture, come
Balkh, Faryab e Takhar, sono destinate alla “conversione” dei raccolti; in sintesi, riporta lo studio dell’Onu, le aree rurali classificate come
“meno sicure” hanno una probabilità maggiore di coltivare l’oppio di quelle con
migliori condizioni di sicurezza.
Secondo il ministero degli interni afghano, la campagna 2013 di distruzione
delle piantagioni di papavero da oppio ha provocato, in quaranta giorni, la
morte di 131 uomini delle forze di sicurezza governative.
Oppio, criminalità e insurrezione
Il cambio di strategia e il
corso di una guerra proiettata verso l’“irreversibile” transizione, hanno
portato a una riduzione dell’attenzione mediatica sul conflitto, in particolare
dei successi insurrezionali sul campo di battaglia convenzionale e
su quello politico e sociale. Eppure, anche nel dodicesimo anno di guerra
i taliban hanno ottenuto buoni risultati in un’opera di ampliamento
operativo che dal sud e dal sud-est li ha spinti anche verso il nord e l’ovest.
La situazione è critica e dimostra
come i taliban abbiano perseguito una politica della doppia velocità volta, da
un lato, a occupare gli spazi lasciati progressivamente vuoti dalle forze della
Coalizione e, dall’altro, a colpire incisivamente laddove l’impegno militare
delle forze occidentali e governative avrebbe dovuto dimostrarsi maggiormente
efficace; in questo provocando un’escalation della violenza nei punti chiave
dell’Afghanistan da pacificare, le provincie di Kandahar, Paktya, Kabul, ma
anche Herat, Nangarhar e Kunduz.
Le tecniche operativamente e
psicologicamente più destabilizzanti sono quelle degli attacchi con ordigni
esplosivi improvvisati Ied (Improvised explosive device) e
attacchi suicidi, migliorati con l’applicazione della tecnica suicide-commando,
ma alta è anche la preoccupazione per le azioni tipiche della guerriglia, le
imboscate, i preoccupanti attacchi green
on blue, i rapimenti e le uccisioni mirate aventi lo scopo di demoralizzare
funzionari locali e stranieri.
Eppure i mandanti o gli oppositori
non sarebbero sempre i taliban propriamente detti; il narcotraffico ha infatti portato
alla nascita di gruppi di para-insorti interessati al massimo profitto derivante
dal commercio di droga, nascondendosi formalmente tra i gruppi di opposizione e
spesso collaborando con loro, sebbene non condividendone ragioni ideologiche o
politiche.
La
criminalità, dunque, si affiancherebbe ai gruppi di opposizione uccidendo
“rivali in affari”, politici ostili, funzionari dell’apparato di giustizia.
E in
questa fase dello scontro il peso della droga, ancora una volta, si è fatto
sentire. Mentre il
governo centrale si è, seppur pigramente, impegnato nel processo di
eradicazione del papavero da oppio – unica fonte di sostentamento per molte
delle comunità rurali dell’Afghanistan – gli insorti ne hanno garantito la
sicurezza dei campi, l’acquisto delle produzioni stagionali con pagamenti
anticipati e il supporto logistico alle comunità dedite a questo tipo di
coltura.
Ciò ha provocato un processo di indebitamento di molte famiglie contadine
afghane che, a fronte del parziale tentativo di eradicazione dell’oppio da
parte del governo di Kabul (per lo più concentrato sule piccole produzioni
famigliari e limitatamente su quelle dei grandi proprietari terrieri), hanno
dovuto compensare il denaro dovuto attraverso la formula “debt marriage”, l’uso di ragazze (le figlie dei debitori) come
merce di scambio tra contadini e trafficanti (fonte Iom, International
Organization for Migration, 2008).
Le povere comunità rurali, dovendo
scegliere tra governo e insorti sulla base dei benefit e delle politiche
adottate dall’uno e dagli altri, hanno optato per la parte che è in grado di
sostenere l’economia locale. I taliban
si sono così avvicinati alla popolazione civile con fine ed efficace azione di
convincimento basata sulla propaganda e su risposte concrete ai bisogni
immediati di comunità ai margini di uno Stato a rischio di fallimento.
L’economia
della droga e le ripercussioni sociali
I proventi derivanti dalla
produzione di papavero da oppio e il suo commercio garantiscono
all’insurrezione afghana, taliban in
primis, ingenti somme di denaro utilizzate per sostenere l’opposizione
armata e la lotta di resistenza contro la Coalizione internazionale a guida
statunitense e il governo afghano da questa sostenuto. Qual è, in termini
quantitativi, l’entità dell’economia di guerra basata sulla droga? I numeri di
questo fronte non secondario del conflitto afghano, ci descrivono la situazione
come molto critica, tanto sul piano della sicurezza quanto su quello del
disagio sociale.
L’Afghanistan produce il 90%
di tutte le droghe oppiacee al mondo, sebbene sino a tempi recenti non ne fosse
un importante consumatore. Al contempo, la produzione di eroina su territorio
afghano è aumentata di quaranta volte da quando, nel 2001, è stata avviata la
«guerra al terrore»; solamente nell’ultimo anno, la produzione è aumentata del
18%, portando da 131.000 a oltre 154.000 gli ettari di terreno agricolo
dedicati alla coltivazione del papavero da oppio. È evidente il fallimento
della Nato sul fronte della lotta al narcotraffico.
Secondo lo United Nations Office
on Drugs and Crime (UNODC) – che attribuisce l’aumento della produzione
di oppio al profitto competitivo della coltura in un paese in cui non esistono
migliori alternative – i taliban sarebbero attualmente in grado di ricavare economicamente
dalla droga più di quanto non lo fossero durante il regime del loro Emirato
islamico negli anni Novanta. Un business
che garantirebbe all’insurrezione entrate di circa 700 milioni di
dollari annui (cifra di molto inferiore a quella destinata ai
narcotrafficanti), più che necessarie a sostenere – e al tempo stesso ad alimentare – una
«macchina da guerra» funzionale ed efficace, tanto sul piano militare quanto su
quello politico-economico.
Due terzi dell’oppio
prodotto in Afghanistan sono trasformati in eroina, direttamente in Afghanistan
o nei paesi limitrofi dell’Asia centrale; del totale prodotto poco meno del 2%
verrebbe intercettato dalle autorità governative afghane.
Tre sono le principali «vie
della droga» dall’Afghanistan. La più importante è quella che attraversa l’Iran
(35/40% del traffico totale), la seconda è quella che attraverso Tagikistan,
Turkmenistan e Uzbekistan (25/30%) garantisce un approvvigionamento di
cinquanta tonnellate di oppio l’anno per il mercato russo; la terza via
(25/30%) attraverso il Pakistan, in particolare via Baluchistan e Karachi, si
muove su rotte europee.
Il Tagikistan, afflitto da
un elevato livello di corruzione, è il principale paese di transito della rotta
verso nord; quando la Russia schierò le proprie truppe sul confine tagiko nel
2005 il livello del traffico illecito diminuì significativamente.
Il Kirghizistan ha
recentemente aumentato i propri sforzi nel contrasto al narcotraffico, in
particolare avviando un rapporto di collaborazione e mutua assistenza con il
governo iraniano; anche l’Uzbekistan ha adottato un’analoga politica, per lo
più per ragioni legate al ruolo giocato dai gruppi di opposizione armata operativi
a livello regionale.
Il Kazakhstan è
particolarmente attivo nella lotta al narcotraffico; nonostante i problemi di
coordinamento con il Turkmenistan (una sorta di zona grigia non adeguatamente
controllata), ogni anno le autorità kazakhe sequestrano partite di droga per un
totale di 23 tonnellate.
Circa metà dell’eroina
prodotta in Afghanistan è consumata in Europa e in Russia, mentre il 42% dei
consumatori di oppio si trovano in Iran; le due droghe, complessivamente,
sarebbero la causa di 100.000 morti l’anno, un terzo dei quali nella sola
Russia.
L’Afghanistan, con una
popolazione teorica di trentacinque milioni di abitanti, presenta un
preoccupante livello di tossicodipendenza: oltre un milione di individui – poco
meno della metà (40%) sarebbero donne e minori.
I profughi afghani rientrati
dall’Iran e dal Pakistan – dove il livello di tossicodipendenza è elevato –
avrebbero contribuito alla diffusione dell’uso di droghe; miseria,
disoccupazione e degrado diffusi sarebbero concause di questa situazione, a cui
si unisce il ruolo di una violenta guerra combattuta ininterrottamente da quasi
quattro decenni le cui conseguenze si ripercuotono pesantemente a livello
sociale. Infine, l’oppio in Afghanistan è un diversivo a buon mercato – meno di
cinque euro/grammo (il prezzo dell’oppio grezzo è di poco superiore ai 200 euro
al chilogrammo) – e ampiamente disponibile. Domanda e offerta si incontrano
sostenendosi vicendevolmente.
Se il ministero degli
Interni afghano ha dimostrato incapacità nel contrasto del narcotraffico, il
ministero della salute ha finanziato complessivamente non più di cento centri
di riabilitazione e disintossicazione, per un bacino di utenza di 2500
assistiti e un budget inferiore ai tre euro/anno per ognuno dei soggetti in cura; è evidente
l’inefficacia dello strumento sanitario, così come è evidente l’assenza di una
volontà strategica di limitare produzione e commercio della materia prima. Un ulteriore
indizio che conferma come la guerra alla droga in Afghanistan non sia stata
vinta.
La produzione di oppio è stata centrale nell’economia
afghana, ben prima dell’intervento statunitense e della Nato; la severa
politica di contenimento della produzione di oppio negli ultimi anni del
governo taliban non va letta in un’ottica di contrasto al fenomeno bensì come
tentativo (riuscito) di riportare i prezzi di vendita a livelli vantaggiosi
(giacché l’eccessiva produzione aveva comportato un abbassamento significativo
del prezzo di vendita); l’andamento
dei prezzi negli ultimi tre anni è stata altalenante: nel 2010 l’oppio afghano
variava tra i 60 e gli 85 dollari al chilo, nel 2011 tra i 300 e il 600
dollari, nel 2012 e inizio 2013 è tra 160 e 440 dollari al chilo (sebbene
quest’anno i prezzi siano più bassi degli anni scorsi, sono comunque più alti
di quanto lo fossero tra il 2005 e 2009). Oggi l’economia
afghana dipende, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli
aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio.
Al di là dei proclami ufficiali e
indirizzati alle opinioni pubbliche delle nazioni contribuenti allo sforzo
bellico afghano, i numerosi tentativi di contrasto della produzione di oppiacei
adottati dalla Nato sono stati fallimentari e in contrasto con gli obiettivi
della politica di «conquista dei cuori e delle menti degli afghani» che, in un
contesto socio-economico disastrato e affetto da corruzione cronica, proprio nel
narcotraffico trovano l’unica fonte di sopravvivenza: agire efficacemente su
questo fronte avrebbe comportato, per l’Alleanza atlantica, un aumento delle
ostilità nei confronti della missione internazionale con conseguente
allargamento dell’entità insurrezionale e severe ripercussioni a livello
politico-strategico e operativo. Osservando la diffusione del fenomeno, emerge
come non esista un prodotto agricolo che possa sostituire l’oppio: non richiede
un’elevata tecnologia di produzione, necessita di poca acqua per essere
coltivato ed è di rapida crescita.
Sul piano dei vantaggi commerciali e
dell’investimento in tecnologie e attrezzature per la produzione, il papavero
non ha eguali; a poco, o nulla, sono serviti i numerosi tentativi di sostituire
la produzione di oppio con altri prodotti agricoli, compresa la costosa – e
complessa sul piano gestionale – coltura dello zafferano. Una situazione che
avrebbe portato circa due milioni e mezzo di persone, per lo più contadini con
le loro famiglie, a vivere oggi del raccolto di oppio; una condizione destinata
a rimanere invariata anche nel 2013.
Il principale programma di contrasto
alla produzione dell’oppio, messo a punto nel 2008, nasceva da considerazioni
di carattere economico: un ettaro di terreno coltivato a grano garantirebbe una
rendita di 1.200 dollari, 4.500 per uno a oppio, a fronte di 12.000 dollari per
uno a zafferano (ma con tre anni di attesa per un effettivo profitto). Al fine
di limitare la produzione di oppio, come alternativa italiana all’approccio sino
ad allora utilizzato e basato sull’azione di «convincimento» e della «conquista
dei cuori e delle menti», nella seconda metà del 2010 venivano distribuite
oltre cinquanta tonnellate di bulbi di zafferano (a cura del Provincial Reconstruction Team italiano di Herat) destinate alla
coltivazione di almeno trenta ettari. I
risultati non sono stati soddisfacenti:
-
produzione,
lavorazione e mercato dello zafferano non sono stati sviluppati in maniera
coordinata;
-
l’assenza di
specifici processi di trattamento – causa della perdita di colore e profumo
dello zafferano – ne ha precluso la vendita all’estero (a fronte di una
sostanziale assenza di mercato interno);
-
le vie di
accesso ai mercati regionali e internazionali sono limitate e di difficile
praticabilità (sono 1600 i chilogrammi di zafferano esportati nel corso del
2012);
-
gli aiuti
economici promessi ai coltivatori afghani sono stati disattesi – convincendo
molti di questi a proseguire o a riavviare la coltura dell’oppio.
In sintesi, «l’offensiva dello zafferano»
è fallita.
Secondo stime della Nato, metà dei
fondi a disposizione dell’insurrezione proverrebbe proprio dal narcotraffico. E
i taliban, che hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di rinunciarvi,
avrebbero avviato un’offensiva orientata a distruggere i campi con coltivazioni
legali, colpire i mezzi di trasporto con bulbi di zafferano e fertilizzanti,
minacciare di morte gli agricoltori e le loro famiglie.
Anche sul piano politico-finanziario
non sono stati ottenuti risultati soddisfacenti, avendo mancato di raggiungere
un obiettivo di rilevanza strategica: il taglio del flusso di denaro –
correlato al narcotraffico – dalle organizzazioni criminali ai gruppi
insurrezionali. Circa il 15% del PNL afghano dipende dall’esportazione di
droga, per un totale di 2,4 miliardi di dollari l’anno (fonte UN). E così,
all’evidente impossibilità da parte della Comunità internazionale di
contrastarne la produzione e il commercio, si unirebbe l’interesse di alcuni
istituti finanziari internazionali nella gestione del denaro derivante dai
traffici illeciti.
Breve Analisi conclusiva
Secondo le Nazioni Unite, l’aumento
nella produzione di oppio è avvenuto prevalentemente nelle regioni meridionali,
in particolare nei distretti e nelle province recentemente transitate dalla
responsabilità della Coalizione a guida statunitense alle forze di sicurezza
afghane.
L’incremento nella produzione, favorito
anche dal prezzo di mercato, suggerisce che gli afghani starebbero
concentrandosi sui traffici illegali in previsione della probabile crisi
economica che potrebbe derivare dal disimpegno dei contingenti militari
stranieri alla fine del 2014.
Su trentaquattro province, l’aumento
di produzione è stato registrato in dodici, stabile in altre sette e in lieve
calo in una; nel complesso quattordici province sarebbero classificate come “poppy free”. Kandahar e Helmand a
livello produttivo sono classificate come “high”
e “very high”; queste sono le due
aree da cui le truppe statunitensi si stanno disimpegnando – dopo il surge militare durato tre anni – e sulle
quali si sono concentrati i principali sforzi per la lotta al narcotraffico
attraverso la ricerca di colture alternative all’oppio.
Nonostante il governo afghano si sia
formalmente impegnato a “bonificare” 15.000 ettari di terreno utilizzato per la
coltura di oppio (non molto rispetto al totale di 154.000, ma comunque un
target superiore del 50% rispetto a quello del 2012), il rischio potenziale – a
fronte del disimpegno internazionale a cui farà seguito il passaggio di
responsabilità alle impreparate forze di sicurezza locali e al debole stato
afghano – è che l’Afghanistan si trasformi nel medio termine un narco-stato.