rubrica SOTTO LA LENTE (pp.81-86)
di Claudio Bertolotti
Come il precedente, il 2012 è stato un anno particolarmente impegnativo
per le forze di sicurezza della missione Nato a guida statunitense. 398 sono i
soldati stranieri caduti negli ultimi dodici mesi (fonte icasualties.org), di
questi 209 sono statunitensi, 44 del Regno Unito e 45 delle altre nazioni
componenti l’alleanza (l’Italia ha registrato complessivamente 7 soldati
morti).
La guerra afghana – che vanta il non invidiabile record di più lunga
guerra combattuta dagli Stati Uniti – è costata nel complesso 3.069 caduti
militari stranieri (2226 statunitensi; 52 i militari italiani), 6.600 soldati
delle forze di sicurezza afghane (1.100 negli ultimi sei mesi) e circa 30.000
civili (dati aggiornati al 31 marzo 2013).
La futura
presenza militare in Afghanistan. Quali numeri?
Per rispondere a questa domanda è
prima necessario tentare di dare una risposta a un altro quesito: gli Stati
Uniti devono continuare a condurre operazioni di controterrorismo in
Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale in
qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in
Afghanistan.
Secondo alcuni esperti statunitensi –
si cita Kimberly Kagan (presidente dell’Institute for the Study of War) – la
risposta sarebbe indubbiamente sì se la strategia per l’Afghanistan rimanesse
quella attuale, portando a 68.000 le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole
nel corso del 2015. Dunque una presenza significativa forte di circa 30.000
uomini. La questione si sposta allora sul piano logistico.
La presenza fisica di truppe sul
terreno richiede un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe
operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione. La svolta
strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e
sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il
mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo
in fase di definizione).
Dunque, la strategia statunitense è
evidentemente orientata a una prosecuzione della guerra a distanza, attraverso l’etichetta
di controterrorismo – avendo de facto
archiviato in via definitiva – l’opzione della counterinsurgency.
In sintesi – meglio di quanto già
tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima a
tempo indeterminato, al momento ipotizzabile sino al 2024.
Dopo mesi di dibattiti, l’allora
comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R.
Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un
adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf
(a partire dal 1 gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno
formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.
Secondo il New York Times, fonti
vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi
militari:
1.
La
prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati
statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di
tipo contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in
territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).
2.
La
seconda opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 soldati, garantendo
agli Stati Uniti una significativa presenza e la capacità di proseguire con
l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).
3.
Infine,
la terza possibilità: 20.000 soldati. È l’opzione preferibile per i vertici
militari statunitensi poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali
(e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi
sul campo di battaglia, addestrare le Ansf, e condurre limitate operazioni.
A queste tre se ne aggiunge una quarta,
non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il Presidente Obama,
durante l’incontro ufficiale di gennaio con il Presidente Karzai, ha avanzato a
sorpresa un’«opzione zero»: ritirare tutte le unità dal teatro afghano. Una
mossa politica volta a porre sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a
destare un certo stupore negli ambienti politici statunitensi e nelle
cancellerie europee.
La ragione di questa scelta discende
dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo
militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda
l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da
consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni
gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni
internazionali). Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo
negoziale hanno portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante
della presenza di soldati stranieri – ma comunque sufficiente per poter intervenire
in maniera efficace “anche” a sostegno delle Ansf – a fronte del mantenimento
di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense. Un evidente vantaggio
per entrambe le parti.
Nella sostanza, affrontando il problema
dal punto di vista tattico, scartate le opzioni “zero” e “uno” (nessuno o 6000 soldati) considerate
dagli stessi vertici del Pentagono come le meno preferibili perché fortemente
limitanti, non resta che definire nel dettaglio l’impiego operativo delle
10-20.000 truppe che rimarranno in Afghanistan per condurre azioni mirate di
tipo contro-terrorismo e addestrare le forze di sicurezza afghane.
Il
sostegno necessario alle forze di sicurezza afghane
In contemporanea allo sforzo sul piano politico per
un’accelerazione del disimpegno dal conflitto, il Pentagono ha recentemente
presentato una relazione tutt’altro che rassicurante sulla generale situazione
afghana, tanto sul piano militare, quanto su quello sociale ed economico. Dal
report “Progress Toward Security and
Stability in Afghanistan”, pubblicazione semestrale destinata al Congresso
degli Stati Uniti, emergono preoccupanti segnali di allarme. In sintesi:
- Nel
complesso delle forze di sicurezza, solo una brigata delle 23 componenti
l’esercito afghano sarebbe classificata come “operativa e indipendente” senza
il supporto aereo o terrestre da parte delle forze della Coalizione;
- Le
Ansf – in particolare a livello di brigata – dipendono completamente dalle
forze CF-Isaf per:
o Comando e controllo.
o Comunicazioni;
o Supporto
aereo;
o Capacità intelligence;
o Logistica.
- Il
livello di diserzione delle Ansf desta preoccupazione: dall’8% (fonte ministero
dell’interno afghano) al 25% (fonte open
source, “The Guardian”);
- La
violenza è più elevata oggi di quanto non lo fosse nel periodo precedente al surge militare dell’estate del 2010.
- La
dilagante corruzione continua a indebolire lo Stato centrale;
- La
capacità tecnica dei funzionari e dei dirigenti statali non è adeguata;
- Ridotto
collegamento tra centro e periferia (in particolare le aree rurali) legato a
ragioni di sicurezza;
- Carenza
di coordinamento tra governo centrale e amministrazioni locali (provinciali e
distrettuali);
- Iniqua
distribuzione dei poteri tra organi giudiziario, legislativo ed esecutivo;
- Sostegno,
diretto/indiretto, del Pakistan continua ai gruppi insurrezionali operativi in
Afghanistan;
- Gli
attacchi green on blue (o insider attack) perpetrati da membri
delle Ansf contro i militari della Coalizione continuano a registrare un
aumento significativo in quantità e in efficacia: 61 azioni nel 2012 (15% dei
caduti CF-Isaf), contro le 35 del 2011 (6% dei caduti CF-Isaf)
- Le
valutazioni sui gruppi di opposizione armata (Goa), in particolare i taliban,
confermano la volontà e la capacità dell’insurrezione afghana di migliorare le
proprie tattiche e tecniche in maniera efficace (in particolare Improvised explosive device – Ied – e
attacchi mirati contro obiettivi di altro profilo);
- Il
fenomeno insurrezionale dimostra una significativa capacità rigenerativa;
-
Sebbene sia ridotta la capacità di infliggere danni
gravi alle forze CF-Isaf, i Goa ottengono risultati positivi in azioni di tipo
“assassinii mirati, rapimenti, tattiche intimidatorie, green on blue, propaganda e comunicazione”;
-
Sul piano propriamente operativo, si rileva una
correlazione tra presenza militare straniera (e delle Ansf) e numero di
attacchi: all’aumento delle truppe CF-Isaf corrisponde un aumento di attacchi
da parte dei Goa, al contrario a una diminuzione della pressione militare segue
una riduzione degli attacchi insurrezionali.
Non mancano
alcuni, pochi, dati positivi:
- Prosegue il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane;
- Aumenta la percentuale di operazioni militari condotte sotto comando
afghano;
- Si riduce il livello di violenza nelle aree urbane, in particolare Kabul e
Kandahar.
Questioni e
problematiche non nuove per gli osservatori del conflitto afghano, ma che
vengono amplificate dal particolare momento storico del disimpegno dal
conflitto.
Se John R.
Allen, l’ex comandante della missione in Afghanistan, ha voluto insistere sulla
necessità di mantenere una parte consistente delle 68.000 truppe al momento
schierate sul campo afghano lo fa a ragion veduta e con la consapevolezza
dell’effettivo livello operativo e delle non incoraggianti capacità proprie
delle Ansf. I problemi ci sono, e non sono limitati; ma non per questo è
possibile escludere che l’amministrazione Obama possa accelerare il disimpegno
dal conflitto afghano riducendo i numeri sul campo per rispondere a esigenze di
politica interna, così chiudendo (sebbene solo sul piano formale) una guerra
sempre più impopolare.
Tutto potrebbe
dipendere da quello che faranno i taliban; da un lato aderendo al processo negoziale
volto a una soluzione di compromesso, dall’altro lato riuscendo a colmare i
vuoti lasciati dal processo di arretramento delle forze Cf-Isaf e,
verosimilmente, tornando laddove il surge
militare del 2010 li aveva indotti ad abbandonare (temporaneamente) il campo.
Breve analisi
conclusiva
Rendere le Ansf
in grado di gestire il conflitto facendo ricorso alle proprie risorse è un obiettivo
non ancora raggiunto, difficilmente lo sarà alla fine del 2014.
V’è poi da
tenere in considerazione il fattore Pakistan. Le relazioni diplomatiche tra
Islamabad e Washington si sono raffreddate negli ultimi anni, registrando
momenti di particolare asprezza. Ciò nonostante, il Pakistan ha recentemente
riaperto i valichi di frontiera ai mezzi logistici Cf-Isaf da e per
l’Afghanistan; ma le tensioni rimangono, così come rimangono i santuari
dell’insurrezioni all’interno delle aree tribali pakistane.
Infine, le
elezioni presidenziali dell’aprile 2014. Un anno ci separa dalle elezioni per il nuovo
presidente afghano; un anno in cui si dovrebbero definire i ruoli di tutti gli
attori del conflitto e di quelli regionali.
Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un
nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (2015): una
transizione dei poteri che potrebbe comportare serie implicazioni per le forze
militari straniere che rimarranno sul suolo afghano, indipendentemente da
quante esse saranno, e conseguenze significative sul piano politico interno. Il
possibile rischio di guerra civile e una parziale o totale disintegrazione
dello stato afghano non sono da escludere, in particolare prendendo in
considerazione la reazione dei gruppi di potere non-pashtun verso una possibile
apertura ai taliban (si rimanda a “La ripresa del «warlordismo»: da Herat la
scintilla di una nuova guerra civile?”, in “Osservatorio Strategico” 11/2012). Se questo
scenario dovesse realizzarsi, 6.000, 13.000 o 20.000 soldati potrebbero non
fare la differenza.
rubrica SOTTO LA LENTE (pp.81-86)