Un articolo postato in questi giorni nella rubrica di Claudio Bertolotti (http://www.grandemedioriente.it/lexit-strategy-internazionale-alla-prova-6750) a proposito delle difficoltà della eterna fase di transizione in Afghanistan, mi induce a qualche riflessione. Bertolotti, con l'usuale competenza, scrive:
[...]la riforma della giustizia [in Afghanistan] impone una sorta di “stallo dialogico” dovuto a rigide posizioni nei confronti della questione femminile poiché qualunque discussione o proposta di riforma tende ad arenarsi di fronte al problema dei diritti delle donne, tuttora “informalmente” riconosciute come soggetti socialmente (e legalmente) subordinati e non come individui al pari degli uomini.
Bertolotti mette il dito su una piaga che pare non voglia mai rimarginarsi: le donne, in Afghanistan, sono un problema, soprattutto per sé stesse. Poco importa che la Costituzione prevede uguali diritti per uomini e donne, se poi, nel Codice Civile, si parla ancora di tamkin (obbedienza), ovviamente dovuta dalle donne nei confronti degli uomini della famiglia, e di nushuz (disubbidienza), in presenza della quale (a discrezione totale maschile) le donne vengono precluse dall'esercizio di ogni diritto, compreso quello del mantenimento. Addurre a pretesto di queste discriminazioni il fatto che l'Afghanistan è un paese islamico e quindi deve rispettare questi limiti è privo di sostanza: lo era anche quasi un secolo fa, eppure, a fine anni '20, le donne afghane godevano di una legislazione tra le più progressiste nel mondo islamico.
Il governo afghano del post-Taleban s'è impegnato ad innalzare il livello di istruzione delle sue donne, ma, dopo 10 anni, le statistiche sono impietose, pur non rivelando fino in fondo la realtà, ovvero, l'enorme divario tra le possibilità offerte a chi vive in città e quelle non raggiungibili dalla stragrande maggioranza degli afgani, sparpagliata tra minuscoli villaggi, magari posti su impervie alture. Le donne che vivono in queste situazioni non hanno accesso all'istruzione, né alla facilitazioni sanitarie: solo il 13% di loro riceve cure prenatali e la mortalità tra le puerpere (moltissime delle quali sotto i 19 anni) si è stabilizzata su un inquietante 14%, cosa che non impedisce alle afghane di raggiungere la non invidiabile media di 6,6 figli ciascuna, uno dei tassi di fertilità più alti al mondo.
Tutto ciò ha poco a che vedere con l'islam e la shari'a, quest'ultima agitata come uno spauracchio tanto da chi vive all'interno di queste situazioni e non le vuole cambiare, quanto da molti “analisti” esterni che s'accontentano di demonizzare senza proporre alternative praticabili. Le leggi differiscono molto da un paese islamico all'altro, fattore che dimostra come esse cambino secondo i bisogni delle società.
L'Afghanistan ha necessità di nuove leggi, ma anche di supporti per implementarle. In un paese così conservatore la strada delle riforme può essere aiutata pure da leader religiosi che aderiscano a nuove interpretazioni che si contrappongano a quelle degli estremisti.
Mentre in parlamento c'è chi pensa di postporre la riforma del diritto di famiglia per non acuire i contrasti tra le parti (la solita storia: i diritti delle donne sono sempre procrastinabili e barattabili), la vita quotidiana di milioni di afghani è regolata da regole locali basate su codici di presunto onore che vittimizzano soprattutto le donne.
Dopo oltre dieci anni di sacrifici, anche da parte della comunità internazionale, bisogna che questa si attivi per promuovere un cambiamento tangibile: alle donne afghane non basta certo, quale emblema di riforma, che qualcuna di loro possa camminare per le strade di Kabul senza il burqa.