Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 31 maggio 2011

Analisi dell’attacco al Provincial Reconstruction Team italiano.

Herat sempre più insicura - Atto secondo

di Claudio Bertolotti

Attacco a una colonna di automezzi della polizia a Sangh-i-sar (Kandahar), assalto alla base militare di Daichopan (Zabul), imboscata a una pattuglia statunitense a Marjah (Helmand), lancio di razzi a Koh-i-Safi (Parwan), scontro a fuoco con le truppe statunitensi a Deh Yak (Ghazni), assalto frontale alla base delle forze di sicurezza afghane di Jan-i Khel (Paktia), base statunitense attaccata a Arghandab (Kandahar), attacco suicida a Kunar, uccisione del locale comandante della polizia, ferimento grave del generale comandante il contingente tedesco e del governatore provinciale di Taloqan (Takhar), uccisione di un ufficiale dei servizi segreti afghani a Kabul, scontro a fuoco a Maiwand (Kandahar), attacco alla base francese di Kapisa, basi statunitensi sotto attacco a Nangarhar e Kunduz, scontro a fuoco nell’area di Bala Murghab (Badghis), attacco al Prt di Ghazni, base militare colpita a Paktia, azione commando suicida multipla a Herat, ecc…
Quella riportata non è la sintesi delle azioni insurrezionali dell’ultimo anno di guerra, bensì una selezione di operazioni portate a termine dai taliban nei tre giorni appena trascorsi. Ma la notizia che più è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media nazionali è stata quella relativa alla serie di azioni coordinate proprio a Herat.
L’azione coordinata, condotta da un commando taliban nella tarda mattinata del 30 maggio 2011, ha interessato «Camp Vianini», sede del Provincial Reconstruction Team dell’Isaf Regional Command West a guida italiana. Un attentatore suicida (Shahid, martire), Hafiz Ahmad, a bordo di un’autobomba si è fatto esplodere lungo il muro perimetrale della base, in prossimità dell’ingresso dell’infrastruttura che ospita parte del contingente italiano, al fine di aprire la strada al nucleo d’assalto costituito da altri mujaheddin taliban, tre dei quali - Zubair di Herat, Zubair Ahmad e Nizamuddin originari di Farah – indossavano dispositivi esplosivi individuali. In supporto al secondo nucleo «operativo» propriamente detto – hanno sostenuto le fonti locali – agiva un terzo gruppo di «sostegno» che, dai piani più alti di tre edifici civili prospicienti la base militare, effettuava fuoco mirato con armi leggere. Alcuni report riferiscono di una famiglia presa in ostaggio e utilizzata come scudo umano al fine di limitare la reazione delle forze di sicurezza afghane e straniere ma, al momento, non vi sono conferme – né tantomeno smentite – in merito.
Un’azione, ma non l’unica azione messa in atto a Herat in quel momento. Parallelamente all’attacco contro il Prt – ha dichiarato il comandante della polizia Farooq Kohistani – sono stati infatti portati a segno altri due colpi da parte dei taliban: Blood Bank e Chawk-i-Cinema, obiettivi di altri due attentati suicidi dove hanno trovato la morte alcuni civili e molti altri sono stati feriti. «Tiro al piccione» e gioco del «gatto col topo» sono andati avanti per alcune ore sino a quando le unità speciali della polizia afghana, in serata, non sono riuscite a “neutralizzare” (e uccidere) tutti i nemici.
A fine giornata si sono contati cinque morti, dei quali quattro civili, e cinquantadue feriti – compresi i cinque militari italiani – tra i quali alcune donne e bambini.
Una serie di attacchi annunciati con ampio anticipo, come hanno confermato il capo della polizia e il governatore della provincia e le fonti militari; informazioni, probabilmente generiche e ridondanti come la maggior parte del materiale intelligence reperibile in Afghanistan, già in possesso delle agenzie di sicurezza locali e straniere che forse – a voler essere ottimisti e senza voler assumere un atteggiamento “gratuitamente critico” – hanno consentito di limitare i danni.
Un duro colpo – certamente dal punto di vista mediatico – inferto alle forze di Isaf e alla polizia afghana a soli due giorni da un’altra efficace operazione, portata a termine dai taliban a Takhar, che ha provocato la morte del comandante la zona nord, il generale Dawood, il capo provinciale della polizia di Takhar, Shah Jahan Noori, il serio ferimento del comandante del contingente tedesco il generale Markus Kneip e l’uccisione di due dei soldati tedeschi deputati alla sua sicurezza (Close Protection team).
È il secondo grande attacco avvenuto negli ultimi sette mesi in quella che è una delle zone più sicure dell’Afghanistan, la tranquilla città Herat, dopo quello che nell’ottobre dello scorso anno ha colpito ancor più duramente il compound dell’Unama.
Anche allora la tecnica utilizzata fu la stessa, il commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device); una tattica ormai ampiamente collaudata e in grado ottenere risultati efficaci e soddisfacenti, se non dal punto di vista operativo, certamente da quello mediatico. L’operazione militare contro la base della missione Unama del 23 ottobre scorso rientrava, allora come oggi, in questa strategia: quattro i martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device).
Gli obiettivi colpiti sono sempre di natura politica, come dimostrano la rivendicazioni taliban che giungono puntualmente attraverso il portavoce Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan». Oggi l’attenzione dei taliban si è spostata su un obiettivo legato al processo di costruzione infrastrutturale dell’Afghanistan che, in parte, è sostenuto anche dalle forze armate italiane, «l’esercito di invasori».
L’operazione militare è un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque». Ma al tempo stesso è una risposta concreta – e non l’azione estrema di un gruppo di disperati come sostenuto da qualcuno – alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano – il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Torno a ripetermi, riportando quanto detto nel precedente articolo sull’attacco a Herat del 2010: «contrariamente a quanto mi è capitato di leggere di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato».
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), si è conclusa con un bilancio positivo per i mujaheddin del mullah Omar e ha lasciato la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore se non quella di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più importante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo dimostrano ormai da molto tempo. L’offensiva del 2011 avviata il 1° maggio, operazione al-Badar, non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insurrezione sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi. Nulla di tutto questo sarebbe potuto avvenire se non ci fosse stato un minimo supporto da parte della popolazione.
Ma come ha dimostrato l’elenco delle azioni all’inizio dell’articolo, quello di Herat è solo uno dei tanti episodi riportati dai media che, di massima, si limitano a descrivere il fenomeno degli attacchi suicidi come una mera successione di eventi non correlati tra loro. Eppure il mutare e adeguarsi delle tattiche e degli obiettivi colpiti dovrebbero suggerire la razionalità di una strategia che tiene in giusta considerazione il rapporto tra i successi a medio-lungo termine e gli inevitabili danni collaterali. Una scelta che, al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, riesce e tenere impegnati polizia, eserciti e “agenzie di sicurezza” in un continuo sforzo volto a contrastare in maniera sistematica gli effetti di questa mutata strategia senza che vi sia un’effettiva comprensione del fenomeno in sé. È dunque necessaria una più profonda penetrazione nelle ragioni del fenomeno dello Shahid; un fenomeno che , nonostante lo stato di guerra più che trentennale, ha iniziato a manifestarsi in maniera preoccupante a partire dalla seconda metà del 2005. Ero a Kabul allora, e le sensazioni di quei momenti sono ancora straordinariamente vive.

30 maggio 2011

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