Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 29 marzo 2011

Afghanistan: una presenza militare a lungo termine

di Claudio Bertolotti
Gli Stati Uniti sono fermamente intenzionati a mantenere una presenza militare a lungo termine in Afghanistan. Questo è un fatto che va oltre le dichiarazioni dettate dall’opportunità politica. All’indomani della conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, lo stesso presidente Karzai ha confermato che sono in corso accordi relativi alla presenza militare americana. Una presenza di «carattere permanente». Al di là della notizia ripresa da buona parte della stampa internazionale – meno da quella italiana –, ciò che più desta interesse è la reazione dell’opinione pubblica e della stampa afghana. Una reazione che è prova dell’esistenza di una vivace società civile. Bene e dettagliatamente ha scritto Abbas Dayar, capace e prolifico giornalista del Daily Outlook Afghanistan. Venerdì 4 marzo, il Shahrwand Foundation (Fondazione del Cittadino) di Kabul, ha organizzato una conferenza dal titolo assai significativo: “Analysis of Permanent US Military Presence and Stability in Afghanistan and the Region”. Ciò che ha reso tale momento particolarmente interessante e degno di nota per la stampa afghana sono state le parole dell’ex ministro degli interni Hanif Atmar, il ministro tajiko che, all’indomani della Peace Jirga tenutasi a Kabul lo scorso anno, fu “licenziato” dallo stesso Karzai in seguito agli attacchi dei taliban il giorno dell’apertura della conferenza. In realtà ciò che portò alle dimissioni forzate di Atmar – e a quelle del capo dell’intelligence afghana Amrullah Saleh – non fu la sua presunta incapacità nel prevedere un’azione taliban, bensì la sua ferma chiusura al tentativo di dialogo con i gruppi di opposizione e alla collaborazione con il Pakistan; una posizione in controtendenza rispetto alla linea politica scelta da Karzai per portare l’Afghanistan fuori dal pantano della guerra civile e dal collasso di uno Stato che oggi, a dieci anni dall’inizio della guerra, ancora non esiste. Più di cinquecento persone hanno preso parte alla conferenza; lo hanno fatto per discutere sulle possibili conseguenze di una presenza permanente di truppe straniere: alti ufficiali dell’esercito e della polizia, membri del governo e del parlamento, analisti, accademici, giornalisti. Ciò che è scaturito dalla discussione è stata un’analisi critica del possibile impatto a livello locale e regionale che le basi permanenti degli Stati Uniti potrebbero provocare a livello di stabilità. Secondo Aziz Royesh, un noto analista afghano, due sono i fattori da tenere in considerazione. Il primo è che l’Afghanistan è inserito in un contesto regionale instabile ed è circondato da realtà statali – a loro volta instabili – impegnate a mantenere i «propri piedi fuori dai loro confini». Il secondo fattore è che l’Afghanistan è a sua volta instabile al suo interno. Non mancano gli oppositori alla presenza prolungata degli Stati Uniti, oppositori che aumentano con il trascorrere del tempo e che sostengono, sulla base del principio dello Stato sovrano, una politica di allontanamento delle forze straniere. Ciò che però viene loro contestato è l’effetto che tale politica potrebbe portare; da un lato vi è l’incognita sicurezza, palesemente impossibile da garantire senza un adeguato strumento militare schierato sul «campo di battaglia», strumento che solo le forze straniere sono in grado di schierare; dall’altro vi è il rischio della violenza dei taliban i quali, all’indomani del ritiro delle truppe straniere, potrebbero muovere verso il potere centrale con il rischio di un successo difficilmente contrastabile. È ovvio, sostiene Royesh, che gli Stati Uniti siano in Afghanistan per i propri interessi ma ciò che ancora deve essere definito è il vero interesse dell’Afghanistan e, al contempo, quali possano essere i concreti vantaggi di una presenza militare straniera permanente. Hanif Atmar, nel suo intervento, ha voluto invece suggerire due linee politiche definite. La prima, indirizzata allo stesso presidente, consiglia di collocare al primo posto l’interesse nazionale attraverso un dialogo con gli Stati Uniti che non mostri le fratture politiche interne alla classe dirigente dell’Afghanistan. Il secondo suggerimento, o linea politica, indica il dialogo «onesto e amichevole» con i paesi confinanti come presupposto per un avvio della stabilità locale e regionale. Ciò che è stato evidente fin da subito è il fermento conseguente all’annuncio di ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan; un’agitazione politica che ha portato attori regionali, e non, a prepararsi all’evento con atteggiamento predatorio – l’implicito riferimento al Pakistan non è passato inosservato –. L’interesse nazionale, ha continuato Atmar, deve essere basato sul contrasto alle rivalità regionali indicate come la vera causa dei conflitti afghani; un’azione di contrasto che potrebbe essere efficace esclusivamente se basata su un’alleanza strategica internazionale e sulla guerra al terrorismo. Amrullah Saleh, sostenendo anch’egli la necessità di una presenza militare statunitense di lungo termine, ha indicato la collaborazione economica con i partner occidentali come unica via percorribile per risolvere una situazione drammatica e insistendo, sul fronte della sicurezza interna, sull’invariato atteggiamento dei gruppi di opposizione, la loro immutata strategia e il continuo supporto ai taliban proveniente dall’esterno: la responsabilità attribuita al Pakistan nell’instabilità afghana è, anche in questo caso, evidente. I commenti di Saleh sono stati molto critici, addirittura accusatori in alcuni passi del suo discorso. «Le responsabilità del governo afghano sono gravi, le iniziative politiche ambigue» e l’atteggiamento verso alleati e nemici altalenante: assumendo il paradossale ruolo di giudice imparziale e super partes il presidente Karzai «un giorno condanna la Nato, il giorno successivo i taliban». È necessario, ha concluso Saleh, «conoscere e definire la propria strategia senza essere un giorno membri di un’alleanza internazionale e il giorno dopo alleati del Nord Waziristan; la politica del compromesso non può che spingere verso il Waziristan», con drammatiche e irreversibili conseguenze. Posizioni nette, quelle riportate da Abbas Dayar che, al di là delle atteggiamenti dal marcato accento politico, mostrano quanto il dibattito attorno alla questione sia vivace e in grado di muovere parte dell’opinione pubblica afghana – quella colta e urbana, certo, non quella rurale e periferica –; un dibattito che lascia ben sperare, se non sul piano politico almeno su quello della società civile. La conferenza della Shahrwand Foundation, al di là dei toni critici rivolti al presidente dai suoi ex collaboratori, è stata un momento importante e, in senso lato, anche un assist indiretto allo stesso Karzai convinto fin da subito a concedere le basi agli Stati Uniti. È indubbio che la sopravvivenza dell’attuale sistema si basi sulla presenza prolungata di truppe straniere, così come è fuori discussione il ruolo tutt’altro che secondario degli attori regionali. Pakistan e Iran sono in parte responsabili dell’instabilità afghana e gli interessi legati a «necessarie profondità strategiche» e all’eliminazione di competitor sgraditi sono i fattori ormai noti. Questo interessante dibattito è conseguenza della determinazione degli Stati Uniti nel mantenere una propria presenza militare. La domanda critica sulla quale è opportuno riflettere non è però quella relativa agli interessi statunitensi nella regione e nell’Asia centrale in generale, ma un’altra ben più importante per i cittadini afghani e la loro sicurezza: «quali saranno le conseguenze per l’Afghanistan?».


29 marzo 2011



Afghanistan: the long-term military presence The Shahrwand (Citizen) Foundation in Kabul had organized the conference “Analysis of Permanent US Military Presence and Stability in Afghanistan and the Region”. According to Abbas Dayar, an afghan journalist, what made the conference notable were critical keynote speeches of former Interior Minister Hanif Atmar and former intelligence chief Amrullah Saleh. More than 500 persons attended the conference discussing on the US role in Afghanistan, consequences of a long-term foreign presence and economical and security opportunities. Regional situation was one of the main focuses discussed and a critical approach characterized the discussion about regional actors in particular Pakistan and Iran. The common opinion is about the necessity of an Afghan national interest. What does it mean? Does a national interest exist? According to Atmar and Saleh there isn’t a clear and common opinion about it. Thus it is necessary to define a strategy where national interest could be defined and obtained without any sort of compromise with Taliban and insurgents. A radical position comprehensible and in accordance with a political approach based on war on terrorism, opposition to Pakistan and the fundamental role of Us in security matters and their necessary permanent presence. Old and failed strategies, according to the author of present article. But the critical question, at this point, it’s not whether or not the U.S. is seeking long-term military presence in Afghanistan. Instead, the critical question to ask is: "what will be the consequences of this possible event for Afghanistan and for afghan people?"

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