"Afghanistan: Sguardi e analisi" è un blog d'informazione indipendente sull'evoluzione della guerra e dei conflitti in Afghanistan e sulle ripercussioni di questi sulle dinamiche politiche e sociali locali e internazionali. L'analisi avviene attraverso il monitoraggio costante degli eventi e delle comunicazioni delle parti in conflitto attraverso il web.
Afghanistan Sguardi e Analisi
"Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.
mercoledì 30 marzo 2011
Presentazione del volume "Shahid"
martedì 29 marzo 2011
Afghanistan: una presenza militare a lungo termine
Afghanistan: the long-term military presence The Shahrwand (Citizen) Foundation in Kabul had organized the conference “Analysis of Permanent US Military Presence and Stability in Afghanistan and the Region”. According to Abbas Dayar, an afghan journalist, what made the conference notable were critical keynote speeches of former Interior Minister Hanif Atmar and former intelligence chief Amrullah Saleh. More than 500 persons attended the conference discussing on the US role in Afghanistan, consequences of a long-term foreign presence and economical and security opportunities. Regional situation was one of the main focuses discussed and a critical approach characterized the discussion about regional actors in particular Pakistan and Iran. The common opinion is about the necessity of an Afghan national interest. What does it mean? Does a national interest exist? According to Atmar and Saleh there isn’t a clear and common opinion about it. Thus it is necessary to define a strategy where national interest could be defined and obtained without any sort of compromise with Taliban and insurgents. A radical position comprehensible and in accordance with a political approach based on war on terrorism, opposition to Pakistan and the fundamental role of Us in security matters and their necessary permanent presence. Old and failed strategies, according to the author of present article. But the critical question, at this point, it’s not whether or not the U.S. is seeking long-term military presence in Afghanistan. Instead, the critical question to ask is: "what will be the consequences of this possible event for Afghanistan and for afghan people?"
venerdì 25 marzo 2011
Una risposta agile ma dettagliata agli interrogativi su origini e potenziale offensivo di un fenomeno in preoccupante crescita. Una minaccia che se da una parte vanifica le magre conquiste in termini di sicurezza per la popolazione civile, dall’altra compromette il lento e tormentato processo di ricostruzione del paese. Sulla scorta della sua esperienza diretta, in particolare quale analista Nato e responsabile della sezione di counter-intelligence della missione Isaf a Kabul, Claudio Bertolotti propone una panoramica a 360 gradi sugli attacchi suicidi, dopo aver raccolto testimonianze per quasi due anni (fra il 2005-2006 e nuovamente nel 2007-2008).
martedì 15 marzo 2011
La commovente e orgogliosa generosità del popolo Afghano
Tanta generosità mi commosse allora, così come mi commuove oggi vedere quanto grande sia la generosità dell’intero popolo afghano. Si sa, l’Afghanistan non ha un prodotto interno lordo in grado di collocare il paese nella top ten dei ricchi del mondo. Eppure di fronte a una tragedia immensa come quella che in questi giorni ha colpito il Giappone, l’Afghanistan ha voluto fare la sua parte, dimostrando quanto la generosità di quel popolo vada oltre la pura formalità, un dovere dettato da chissà quale codice. All’indomani della più grave catastrofe che negli ultimi secoli ha colpito il popolo giapponese la provincia di Kandahar ha voluto donare 50.000 dollari a un altro popolo in difficoltà; un contributo limitato solamente sotto l’aspetto materiale, ma enorme dal punto di vista umano.
15 marzo 2010
mercoledì 9 marzo 2011
Afghanistan 2011: l’offensiva di primavera e il dialogo con il nemico
I taliban stanno probabilmente attendendo il momento giusto per dare inizio, come ogni anno, all’offensiva di primavera. Così come hanno fatto nelle precedenti nove primavere; così come hanno dimostrato di saper fare l’anno scorso con la travolgente offensiva Al-Faath (Vittoria) che ha provocato la morte di 711 soldati della Coalizione internazionale in soli dodici mesi. Il movimento degli studenti coranici, forte ormai di un numero consistente di combattenti in grado di muoversi in maniera relativamente sicura in quasi tutto il territorio dell’Afganistan, si sta preparando per riprendere quanto strappato dalla Coalizione a partire dall’agosto dell’anno scorso; non molto a dire il vero, ma sufficiente per presentare la guerra afghana all’opinione pubblica internazionale come una campagna, se non vittoriosa, quantomeno non così disastrosa come invece i numeri e le statistiche dimostrerebbero.
Verosimilmente, e sulla traccia di quanto messo in atto nell’ambito della precedente offensiva di primavera – che si è protratta senza soluzione di continuità sino all’inverno che si sta ora concludendo – aumenteranno le azioni dirette contro obiettivi remunerativi, sia sul campo di battaglia che sul piano mediatico; dunque attentati suicidi multipli e spettacolari, con un aumento del numero medio di attentatori impegnati in ogni singola azione: i temuti Suicide Commando. Aumenterà il rischio di attacchi diretti contro infrastrutture, caserme e basi avanzate (Fob) della Coalizione, delle Forze di sicurezza e governative afghane. Aumenteranno anche gli attacchi contro le neonate forze di polizia locale, sempre che queste – essendo composte anche da ex-taliban – non decidano di collaborare con le forze insurrezionali.
Saranno sufficienti i poco meno di 70.000 nuovi soldati dell’esercito nazionale afghano? I dati relativi al potenziale operativo delle Forze di sicurezza governative non sono confortanti con un tasso di diserzione al 23 percento e con solamente il 21 percento delle unità dell’esercito in grado di operare autonomamente e senza il supporto delle forze straniere. Un risultato che non soddisfa ma che, ottimisticamente parlando, non può che offrire margini di miglioramento sul medio termine.
Il livello di violenza è aumentato, e non è stato caratterizzato da una diminuzione nell’intensità e nel numero di attacchi durante la stagione invernale, sfatando ancora una volta il mito della guerra stagionale condotta dall’insurrezione afghana così come viene presentata da molti analisti. In aumento è pure il livello di corruzione della pubblica amministrazione e delle forze di sicurezza: il fallimento della Kabul Bank è solamente uno degli indicatori di una situazione difficilmente sostenibile. L’unica cosa che con il tempo tende a diminuire è il consenso verso le istituzioni nazionali e straniere da parte di una popolazione civile sempre più stanca di uno stato di guerra cronico e senza possibilità di uscita.
In tutto questo, mentre la Coalizione si prepara a contrastare l’assalto taliban del 2011, il presidente Karzai è impegnato in quello che sembra essere un proficuo colloquio con alcuni dirigenti del movimento insurrezionale legato all’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Un presidente che pare correre nel buio di una notte afghana, cercando di non andare a sbattere nei tanti, tantissimi, ostacoli che gli si pongono innanzi. Da un lato lo vediamo impegnato in pubbliche accuse verso la Nato per l’eccessiva leggerezza nella condotta di azioni militari – che sono causa delle numerose vittime tra i civili (il 2010 è stato l’anno peggiore da questo punto di vista con 2800 civili uccisi nel confronto tra forze della Coalizione e gruppi di opposizione armata) chiedendo agli stranieri di lasciare al più presto il paese – dall’altro prendiamo atto della concessione permanente delle basi militari al governo statunitense. Sì la comunicazione politica è un argomento certamente interessante, ed è necessaria per un Karzai sempre più in difficoltà e posto tra l’incudine – la Coalizione – e il martello – i taliban –, ma il rischio è quello di lasciarsi coinvolgere da esigenze dettate dalla ricerca del sostegno dell’opinione pubblica afghana e internazionale e non della soluzione ai conflitti locali e regionali. In questa confusa situazione però, tanto il governo afghano che i vertici della Coalizione pare si siano mossi nella “giusta” direzione, quella che potrebbe portare a una soluzione razionale ed equilibrata: il dialogo con il «nemico».
«Siamo in contatto diretto con alcuni taliban, così come lo sono le forze della Coalizione», ha recentemente dichiarato il presidente Hamid Karzai. E in effetti i non più segreti colloqui, avviati già alla fine del 2007 e intensificati a partire dallo scorso anno, rimangono forse l’ultima una carta da giocare. Dialoghi che, nonostante le non poche difficoltà nella definizione dei possibili interlocutori, vedrebbero la partecipazione attiva – ha detto recentemente Karzai – di Inglesi e Statunitensi.
Non sarebbe dunque un passo azzardato, a questo punto, quello fatto da Karzai: la richiesta di cancellazione dalla Black list delle Nazioni Unite di cinque ex taliban di alto livello. Chi sarebbero i cinque individui ai quali Karzai vorrebbe aprire la porta della riconciliazione? Si tratta di soggetti non di secondo piano. Mawlawì Qalamudin, l’ex numero due del famigerato Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio; Arsalan Rehmani, ex vice ministro dell’Educazione dell’Emirato islamico; Rahmatullah Wahidyar, ex vice ministro per i Martiri e il Rimpatrio; Saeedur Rehman Haqani, del ministero delle Risorse minerarie e dell’Industria e, infine, Habibullah Fawzi, diplomatico taliban in Pakistan. Tutti dirigenti taliban qualificati come «moderati»; anche Qalamudin, con i suoi trascorsi di sostenitore del divieto di far volare gli aquiloni, dell’ascolto della musica, dell’obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba…
Lo scorso mese Washington, in riferimento al dialogo con i taliban, ha lanciato un segnale positivo in questa direzione quando il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton ha affermato che «un’intensificata spinta diplomatica» è necessaria per «sostenere un processo politico guidato dall’Afghanistan per spezzare il legame tra i taliban e al-Qa’ida». Oggi gli Stati Uniti stanno lavorando “caso per caso” per l’eliminazione di alcuni nomi dalla Black list che, da strumento per un Afghanistan migliore, si sta trasformando in limite per possibili sviluppi futuri. Potrebbe essere giunto il momento di mettere mano alla “lista dei cattivi”.
8 marzo 2011
Afghanistan: Waiting the taliban spring offensive dialoging with the enemy
Statistics showing an extremely deteriorated situation in Afghanistan and the Taliban “spring offensive” is coming.
35.000 insurgents are ready to fight and to die in the name of the Islamic Emirate of Afghanistan, more than the past year. It means that taliban propaganda and recruitment policy are actively working.
What are Isaf and the afghan Government doing? Special operation forces, drones attacks, afghan security forces training: it appears not enough.
Due to the lack of security and the deteriorating situation, Isaf and Afghan Government, in an effort to end the ongoing conflict, are in peace negotiations with Taliban insurgents. Negotiations and dialogues putted on a medium term plan to drive Afghanistan in a sort of possible solution based on the power sharing with Taliban and the other opposition armed groups. It could be enough to resolve the Afghan long war, probably, but not enough to resolve all the afghan conflicts. In any case, according to president Karzai, the dialogue would take two to three years to yield concrete results. The time will show us the middle term results, step by step.
Even if military and political plans are ready to be applied immediately, Talibans have all the time they need; it is not the same for the Coalition and the International Community. The time will influence the final result.
mercoledì 2 marzo 2011
Shahid: i bambini che non diventeranno mai uomini
Bambini e adolescenti che giocano simulando un attentato suicida o meglio un Istisshadi, il martirio autonomamente scelto. Si gioca a fare lo Shahid nella terra di nessuno tra Afghanistan e Pakistan; o sarebbe meglio dire nella terra dei taliban. È quanto si può vedere attraverso un video apparso recentemente su YouTube. Ma quei bambini stanno davvero giocando? Sono realmente consapevoli di ciò che stanno simulando? Oppure più semplicemente mettono in scena quanto l’addetto alla propaganda taliban dietro alla telecamera dice loro di fare? È evidente che si tratti di una messa in scena creata ad hoc, ma questo non significa che il problema non sussista.
Il settimo capitolo del mio libro sul terrorismo suicida in Afghanistan, Shahid (ed. Franco Angeli, 2010) affronta quella che da sempre è l’unica certezza di tutte le guerre: le vittime. Vittime civili, non al margine di un conflitto, ma al suo interno. E tra queste i bambini, vittime due volte, perché non solo colpiti dagli attentati suicidi, ma spesso anche attivamente coinvolti nella conduzione degli stessi.
Per quanto in Afghanistan il fenomeno degli attacchi suicidi sia relativamente recente, gli effetti sono dirompenti.
Gravissime le ripercussioni sulla vita quotidiana degli afghani. La strategia del terrorismo influenza soprattutto le fasce generazionali più deboli, quella dei bambini in primis, che sono coinvolti come vittime, sì, ma che trovano talvolta un ruolo anche tra i “carnefici”. Quindi vittime due volte. Il loro coinvolgimento, sia come componente sociale ferita dalla violenza degli attacchi sia, anche se solo in parte, come soggetti attivi nella condotta o nella partecipazione a operazioni suicide, è un problema molto grave che riversa sull’intera società le conseguenze di una politica spregiudicata.
I bambini sono le vittime dirette e indirette delle violenze e delle atrocità tipiche della guerra, sia essa civile, moderna, giusta o semplicemente “utile”. Sono obiettivi cosiddetti facili, curiosi e vivaci, hanno voglia di fare nuove esperienze e la loro percezione del pericolo è molto limitata. Le azioni violente hanno effetti devastanti sulla psicologia dei bambini, e tanto più gli attacchi suicidi. Molti hanno visto morire qualcuno, un amico o un parente, oppure hanno assistito a scene post-attentato caratterizzate dalla presenza di cadaveri smembrati e pezzi di corpi inanimati; molti di loro soffrono di incubi e angosce profonde. Studi condotti da enti di soccorso e umanitari, sia istituzionali che privati, hanno raccolto una sufficiente quantità di testimonianze e dati utili per concludere, per quanto in maniera incompleta ma non per questo meno realistica, che le violenze e la persistente percezione del rischio di attacchi suicidi, oltre che la loro effettiva attuazione, influiscono in maniera negativa sul “soggetto-bambino” al punto tale da allontanarlo dalla propria famiglia, per mancanza di senso di protezione, e in alcuni casi da persuaderlo a commettere egli stesso un attacco di tale tipologia. La ragione di questa condizione estrema sta nel fatto che molti di loro non si aspettano di sopravvivere.
Per quanto riguarda le ragioni per cui alcuni bambini si trovano coinvolti in questi meccanismi, non possiamo parlare di imposizione, se non in minima parte. Molto più significativi sono il coinvolgimento e il convincimento. L’età varia dagli undici ai quindici anni. Il peso che le scuole religiose hanno in quest’opera di reclutamento è notevole in particolar modo nel processo di indottrinamento che avviene fin dalla più giovane età. Il risultato, ovvio, è quello di una generazione ideologicamente influenzata e condizionata: scelta e desiderio vengono così indirizzati, viziati dalle aspettative e dalle delusioni. L’incidenza di questo indottrinamento, l’incapacità di prendere una decisione razionale, la facilità con cui cadono nelle maglie di organizzazioni terroristiche sono fattori che testimoniano come l’opera di convincimento condotta dai taliban negli istituti scolastici comprenda promesse di riconoscimento, sì di tipo celeste, ma anche terreno, come telefoni cellulari e motociclette: regali altrimenti irraggiungibili. E pure l’immaginario gioca un ruolo fondamentale: l’avventura, la possibilità di divenire “martire” e quindi di essere un esempio per tutti.
Casi di bambini impiegati in attacchi suicidi e reclutati nelle madrasa pakistane sono ben noti.
L’infanzia “sacrificata”, nella forma estrema dell’attacco suicida, è un fenomeno, per quanto limitato, ad ampia diffusione geografica e, proprio per questo, preoccupante.
Perché i bambini vengono indotti a commettere un atto tanto crudele? Cosa li spinge a morire, più o meno consapevolmente, in nome di un generico e distorto precetto religioso? Domande che richiedono una profonda riflessione sulla situazione sociale dell'Afghanistan contemporaneo.
Oggi i gruppi di opposizione possono attingere da un bacino di reclutamento molto ampio, quello degli emarginati o di coloro che sono al limite della disperazione. E così il numero di potenziali attentatori non fa che aumentare di giorno in giorno.
(Da Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan. ed. Franco Angeli 2010, leggi la recensione)
2 marzo 2011