Abstract
Saturday the 23rd, a Suicide Commando Improvised Explosive Device (Scied) attacked the United Nations compound in Herat city with rocket-propelled grenades, crashed a Suicide vehicle born improvised explosive device (Svbied) and attempt to detonate suicide vests hidden under burqas. It is not important the military results (no serious damages reported, only two Afghan policemen injured) but the political message launched by the insurgents: Talibans are able to hit everywhere and everyone in accordance with the Al-Faath operation’s goals. United Nations represents a symbol, a political objective, because authorized the United States to invade the Islamic Emirate of Afghanistan nine years ago causing thousands of innocent victims.
Herat is considered a safe area, without a strong presence of Talibans or insurgency activities: a place far away from the front line. But Talibans and armed opposition groups are moving to the places where the Coalition Forces are transferring the responsibility to the Afghan government: Herat will be probably the first province of the list. International Community, Isaf and Coalition forces will not be able to contrast the Taliban's offensive, both social and military; the result is the clear intent to pass to the transfer of authority' strategy, or «Afghanization» of the conflict. Herat doesn’t represent the new front line, but the old one expanding from south-east to north-west.
Che cosa succede a Herat, una delle province più tranquille dell’Afghanistan?
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), volge al termine con un bilancio decisamente positivo per i mujaheddin del mullah Omar e lascia la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più interessante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo stanno dimostrando ormai da molto tempo.
A maggio di quest’anno i taliban, annunciando di voler colpire su tutto il territorio del Paese, hanno voluto indicare anche gli obiettivi che sarebbero rientrati nei piani di guerra, tra questi anche «consiglieri stranieri, spie che si spacciano per diplomatici, … contractor delle compagnie di sicurezza straniere e locali, … e tutti coloro che lavorano per gli occupanti». Una dichiarazione di intenti che non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insorgenza sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi.
L’operazione militare contro la base della missione Unama compiuta a Herat da un commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device) sabato 23 ottobre rientra in questo quadro. Quattro martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device), hanno tentato di entrare al’interno del compound delle Nazioni Unite per portare a temine un’operazione spettacolare. Operazione parzialmente riuscita poiché, al di là dei limitati danni materiali (danneggiamento dell’infrastruttura, distruzione di alcuni veicoli e ferimento di due poliziotti afghani), l’attenzione mediatica si è immediatamente concentrata su quella che probabilmente è la più tranquilla delle grandi città dell’Afghanistan, Herat.
L’obiettivo colpito è di natura politica, come ha dimostrato la stessa rivendicazione dei taliban giunta puntualmente attraverso uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan nove anni fa; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti afghani dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan».
L’operazione militare è, dunque, un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque»; al tempo stesso si tratta di una risposta concreta alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano che, detto in altri termini, sarebbe il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Contrariamente a quanto ho letto di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato.
26 ottobre 2010
Saturday the 23rd, a Suicide Commando Improvised Explosive Device (Scied) attacked the United Nations compound in Herat city with rocket-propelled grenades, crashed a Suicide vehicle born improvised explosive device (Svbied) and attempt to detonate suicide vests hidden under burqas. It is not important the military results (no serious damages reported, only two Afghan policemen injured) but the political message launched by the insurgents: Talibans are able to hit everywhere and everyone in accordance with the Al-Faath operation’s goals. United Nations represents a symbol, a political objective, because authorized the United States to invade the Islamic Emirate of Afghanistan nine years ago causing thousands of innocent victims.
Herat is considered a safe area, without a strong presence of Talibans or insurgency activities: a place far away from the front line. But Talibans and armed opposition groups are moving to the places where the Coalition Forces are transferring the responsibility to the Afghan government: Herat will be probably the first province of the list. International Community, Isaf and Coalition forces will not be able to contrast the Taliban's offensive, both social and military; the result is the clear intent to pass to the transfer of authority' strategy, or «Afghanization» of the conflict. Herat doesn’t represent the new front line, but the old one expanding from south-east to north-west.
Che cosa succede a Herat, una delle province più tranquille dell’Afghanistan?
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), volge al termine con un bilancio decisamente positivo per i mujaheddin del mullah Omar e lascia la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più interessante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo stanno dimostrando ormai da molto tempo.
A maggio di quest’anno i taliban, annunciando di voler colpire su tutto il territorio del Paese, hanno voluto indicare anche gli obiettivi che sarebbero rientrati nei piani di guerra, tra questi anche «consiglieri stranieri, spie che si spacciano per diplomatici, … contractor delle compagnie di sicurezza straniere e locali, … e tutti coloro che lavorano per gli occupanti». Una dichiarazione di intenti che non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insorgenza sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi.
L’operazione militare contro la base della missione Unama compiuta a Herat da un commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device) sabato 23 ottobre rientra in questo quadro. Quattro martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device), hanno tentato di entrare al’interno del compound delle Nazioni Unite per portare a temine un’operazione spettacolare. Operazione parzialmente riuscita poiché, al di là dei limitati danni materiali (danneggiamento dell’infrastruttura, distruzione di alcuni veicoli e ferimento di due poliziotti afghani), l’attenzione mediatica si è immediatamente concentrata su quella che probabilmente è la più tranquilla delle grandi città dell’Afghanistan, Herat.
L’obiettivo colpito è di natura politica, come ha dimostrato la stessa rivendicazione dei taliban giunta puntualmente attraverso uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan nove anni fa; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti afghani dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan».
L’operazione militare è, dunque, un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque»; al tempo stesso si tratta di una risposta concreta alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano che, detto in altri termini, sarebbe il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Contrariamente a quanto ho letto di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato.
26 ottobre 2010