«The leadership has changed, but the policy hasn’t changed» ha dichiarato l’ammiraglio Mike Mullen, capo del Joint Chiefs of Staff statunitense. Ma le prime notizie trapelate dagli ambienti militari riportano già una prima concreta volontà di cambio nella condotta delle operazioni: il cambio delle regole d’ingaggio da parte di Petraeus. Un mutamento che punta a concedere maggiore libertà “di manovra” ai soldati americani e che non limita troppo, così come invece voleva McChrystal, l’impiego della forza. Nessun dettaglio in più al momento, vedremo nei prossimi giorni come il nuovo comandante delle truppe sul terreno personalizzerà una guerra che è completamente diversa da quella irachena da cui lui sarebbe – almeno secondo alcuni – uscito vincitore.
«Gli alleati non hanno ripreso l’iniziativa ma hanno bloccato l’iniziativa degli insorgenti», sostiene ottimisticamente Mark Sedwill, il diplomatico britannico che svolge la funzione da consigliere della Nato, sul New York Times del 26 giugno. Parziale verità dal momento che, se è pur vero che le forze di sicurezza straniere non hanno ripreso quell’iniziativa, gli insorgenti continuano a muoversi e a colpire con precisa efficacia tanto da imporre il rinvio dell’annunciata offensiva estiva su Kandahar (pianificata per agosto) all’autunno, forse addirittura a dicembre.
Surge e counterinsurgency rimangono comunque i due perni su cui il comando Isaf/Coalition Forces continuerà ufficialmente a lavorare, ma né l’una né l’altra potranno essere repliche dell’esperienza irachena. Petraeus non ripeterà la vittoria irachena, semplicemente perché in Iraq il successo non si è rivelato tale. L’equazione “Irak-Petraeus-counterinsurgency uguale a successo” non varrà per l’Afghanistan essenzialmente per due motivi: il tempo e le differenze socio-culturali abbinate agli equilibri geometrici di natura etnica. Il primo manca, le seconde sono troppo complesse da poter essere affrontate in carenza di tempo e risorse. Per quanto il comando militare sia una realtà finalmente concreta in grado di gestire seriamente la complessità di un’alleanza variegata e dai fin troppi limiti d’impiego, gli insuccessi degli ultimi nove anni pesano sulle spalle del generale Petraeus come macigni. Insuccessi a cui hanno contribuito le “doverose” quanto infruttuose alternanze di comando attribuito ad alcune potenze europee e alla Turchia. Ma saprà fare bene Petraeus poiché supportato dal suo presidente e, fattore da non sottovalutare, dal Congresso, dall’opinione pubblica americana e dai suoi soldati. E se farà bene lo sapremo a breve, per quanto i risultati dichiarati, temo, non arriveranno; arriverà invece quello parzialmente annunciato, ossia il progressivo disimpegno militare da un Afghanistan non pacificato, in cui la lotta per il potere vedrà muoversi sul campo di battaglia schieramenti mossi da spinte etniche, economiche e ideologiche.
Ricade quindi su Petraeus l’amaro compito di concludere (e quindi perdere) la guerra in Afghanistan? A questo punto sì. Il generale reduce della guerra in Iraq, dopo l’onore del comando di Centcom, si trova ora “costretto” a una promozione verso il basso; ciò che dal punto di vista di Obama rappresenta l’espressione di massima fiducia nei confronti dell’ufficiale, si dimostra in realtà come l’ultima carta da giocare prima del “grande bluff” finale. Una fiducia condita da disperata rassegnazione politica, poiché dal punto di vista militare prevale il sano – si spera – realismo del campo di battaglia, ormai in mano ai taliban. Taliban che non sono i moderati con cui si spera di poter avviare un dialogo, bensì i radicali che impongono una scelta obbligata a Karzai che si trova ora tra due fuochi: quello dei gruppi di opposizione armata che, tra speranza di dialogo e scontro aperto, si impongono come soggetto forte e quello dei gruppi di opposizione politica i quali, al momento solo a parole, hanno dichiarato di essere disposti a riprendere le armi qualora i taliban fossero ammessi non solo al tavolo delle trattative ma anche nelle stanze del potere.
Sostengo ormai da anni la necessità di lasciare la parola ai diretti interessati, gli afghani dell’Afghanistan (e quindi non solamente gli esuli espatriati durante le guerre degli ultimi trent’anni), come sostengo oggi la necessità di trovare una soluzione di compromesso, consapevole del fatto che questo significhi rinunciare a molti dei pochissimi risultati ottenuti nel campo dei diritti umani, della “democrazia” e della giustizia. Non mi faccio illusioni, la soluzione afghana si sta definendo, come sempre, nello spazio temporale; uno spazio in cui l’Occidente non vuole e non può muoversi.
«Gli alleati non hanno ripreso l’iniziativa ma hanno bloccato l’iniziativa degli insorgenti», sostiene ottimisticamente Mark Sedwill, il diplomatico britannico che svolge la funzione da consigliere della Nato, sul New York Times del 26 giugno. Parziale verità dal momento che, se è pur vero che le forze di sicurezza straniere non hanno ripreso quell’iniziativa, gli insorgenti continuano a muoversi e a colpire con precisa efficacia tanto da imporre il rinvio dell’annunciata offensiva estiva su Kandahar (pianificata per agosto) all’autunno, forse addirittura a dicembre.
Surge e counterinsurgency rimangono comunque i due perni su cui il comando Isaf/Coalition Forces continuerà ufficialmente a lavorare, ma né l’una né l’altra potranno essere repliche dell’esperienza irachena. Petraeus non ripeterà la vittoria irachena, semplicemente perché in Iraq il successo non si è rivelato tale. L’equazione “Irak-Petraeus-counterinsurgency uguale a successo” non varrà per l’Afghanistan essenzialmente per due motivi: il tempo e le differenze socio-culturali abbinate agli equilibri geometrici di natura etnica. Il primo manca, le seconde sono troppo complesse da poter essere affrontate in carenza di tempo e risorse. Per quanto il comando militare sia una realtà finalmente concreta in grado di gestire seriamente la complessità di un’alleanza variegata e dai fin troppi limiti d’impiego, gli insuccessi degli ultimi nove anni pesano sulle spalle del generale Petraeus come macigni. Insuccessi a cui hanno contribuito le “doverose” quanto infruttuose alternanze di comando attribuito ad alcune potenze europee e alla Turchia. Ma saprà fare bene Petraeus poiché supportato dal suo presidente e, fattore da non sottovalutare, dal Congresso, dall’opinione pubblica americana e dai suoi soldati. E se farà bene lo sapremo a breve, per quanto i risultati dichiarati, temo, non arriveranno; arriverà invece quello parzialmente annunciato, ossia il progressivo disimpegno militare da un Afghanistan non pacificato, in cui la lotta per il potere vedrà muoversi sul campo di battaglia schieramenti mossi da spinte etniche, economiche e ideologiche.
Ricade quindi su Petraeus l’amaro compito di concludere (e quindi perdere) la guerra in Afghanistan? A questo punto sì. Il generale reduce della guerra in Iraq, dopo l’onore del comando di Centcom, si trova ora “costretto” a una promozione verso il basso; ciò che dal punto di vista di Obama rappresenta l’espressione di massima fiducia nei confronti dell’ufficiale, si dimostra in realtà come l’ultima carta da giocare prima del “grande bluff” finale. Una fiducia condita da disperata rassegnazione politica, poiché dal punto di vista militare prevale il sano – si spera – realismo del campo di battaglia, ormai in mano ai taliban. Taliban che non sono i moderati con cui si spera di poter avviare un dialogo, bensì i radicali che impongono una scelta obbligata a Karzai che si trova ora tra due fuochi: quello dei gruppi di opposizione armata che, tra speranza di dialogo e scontro aperto, si impongono come soggetto forte e quello dei gruppi di opposizione politica i quali, al momento solo a parole, hanno dichiarato di essere disposti a riprendere le armi qualora i taliban fossero ammessi non solo al tavolo delle trattative ma anche nelle stanze del potere.
Sostengo ormai da anni la necessità di lasciare la parola ai diretti interessati, gli afghani dell’Afghanistan (e quindi non solamente gli esuli espatriati durante le guerre degli ultimi trent’anni), come sostengo oggi la necessità di trovare una soluzione di compromesso, consapevole del fatto che questo significhi rinunciare a molti dei pochissimi risultati ottenuti nel campo dei diritti umani, della “democrazia” e della giustizia. Non mi faccio illusioni, la soluzione afghana si sta definendo, come sempre, nello spazio temporale; uno spazio in cui l’Occidente non vuole e non può muoversi.