Nel 2009, dopo 8 anni di guerra, la grave situazione in Afghanistan non è stata ancora risolta.
Ho avuto modo di appurare di persona, a Khost come a Kabul, quanto la grave situazione sociale ed economica in cui versa il Paese si sia ulteriormente aggravata, al pari della sicurezza interna. I risultati negativi attribuiti al presidente Hamid Karzai in questi anni (ma di politica negativa tout court non è corretto parlare) hanno avuto forti ripercussioni sulla politica governativa centrale, sempre più lontana da un effettivo esercizio di potere. Parlare di sicurezza è un eufemismo, il governo centrale è stretto nella morsa tra gruppi di opposizione e necessità del supporto militare dell’Occidente. Gli aiuti economici provenienti dall’esterno sono una necessità imprescindibile e la lotta al narco-traffico è solo un progetto.
Un recente studio condotto dall’International Council on Security and Development conferma che i gruppi di opposizione sono tornati a essere padroni della situazione militare – e quindi anche politica – in una porzione di territorio pari al 72% dell’intero Afghanistan. Si tratta di una controffensiva sempre più rapida che, cominciata nel 2005 e intensificata nel biennio 2007-2008, ha portato a una progressiva riduzione del territorio controllato dalle forze di Isaf e della Coalizione a guida americana. Quella che può essere definita a tutti gli effetti una manovra di accerchiamento delle forze armate internazionali e del governo centrale, si avvicina sempre più a Kabul, al punto che – a periodi alterni – ben tre delle quattro strade principali che consentono l’accesso alla capitale sono sotto relativo controllo degli insorgenti.
In questa situazione il presidente Hamid Karzai ha tentato, a più riprese, di avviare una politica conciliante e ambigua ostentando un’apparenza di relativo controllo. La svolta necessaria è stata identificata nella parziale riconciliazione con elementi del passato regime e con una loro integrazione nell’organizzazione dello Stato; in tale contesto non ha sorpreso il tentativo di avvicinamento e dialogo con i maggiori attori della vicenda afghana: i taliban. Questi hanno ricevuto un’offerta di dialogo da parte del presidente afghano in conseguenza della continua pressione sulla sicurezza interna del Paese. Per quanto non confermato ufficialmente, risalirebbero già alla fine del 2007 i primi negoziati intrapresi tra i rappresentanti del governo di Kabul – tra i quali il fratello del presidente, Qayum Karzai – e delegati del mullah Omar. A tali incontri sarebbero intervenuti due membri della famiglia di Karzai e rappresentanti dei taliban afghani e pakistani con la collaborazione e il supporto di alcuni alti ufficiali dei servizi pakistani (l’Isi). Tale tentativo di “avvicinamento” può essere considerato come il frutto della politica lungimirante messa in atto da Karzai che già da molto tempo ha assegnato cariche istituzionali, in punti chiave dell’area a maggior influenza talebana, proprio a rappresentanti del passato regime. Ciò potrebbe consentire, in un futuro non meglio definito, una relativa stabilizzazione dell’area oppure, cosa che temo sia molto probabile, una tendenza verso posizioni radicali della politica interna del Paese. Ma al momento la scelta dell’assimilazione pare essere l’unica via d’uscita da una situazione non più gestibile altrimenti. È un “dialogo tra pashtun” il prezzo da pagare. Dialogo che ha trovato come sostenitore proprio il presidente statunitense Barack Obama che ha optato per un concreto avvio del metodo di dialogo – coraggiosa ed ultima chance di compromesso – basato sull’intesa tra afghani. Contrario a questa politica sarebbe però il segretario generale dell'Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva – «l'anti-Nato» a guida russa comprendente, oltre a Mosca, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirgistan, Tagikistan e Uzbekistan – che invece vedrebbe nel dialogo «con le tribù e le diverse fazioni, ma non con i taliban» una possibile via d’uscita. In un’intervista del 2008, il generale Hamid Gul – ex capo dell'Isi pakistana – ha espresso la sua opinione in base alla quale i taliban, che hanno partecipato alla serie di colloqui mediati da re Abdallah in Arabia Saudita con rappresentanti del governo afghano, sarebbero «solo esponenti della vecchia guardia, senza più legami diretti con gli attuali comandanti, primo fra tutti il mullah Omar, leader dei taliban» con cui invece si dovrebbe parlare. I capi taliban di medio/basso livello potrebbero in effetti trarre vantaggio da questo tentativo di riconciliazione e “perdono” per quanto una domanda importante non ha ancora trovato una risposta soddisfacente: come reagiranno i radicali? Come ho già detto, per questi il compromesso non esiste e per certo non rinunceranno alla battaglia ingaggiata. Ma una accorta e cauta politica del compromesso, basata sul coinvolgimento delle tribù nel processo di ricostruzione politica del Paese e nel rispetto delle gerarchie sociali tradizionali, potrebbe portare ad una loro emarginazione da parte di quei “moderati” propensi ad una tregua. Una soluzione “totalmente indolore” non è al momento ipotizzabile, tutto sta nel pesare attentamente i rischi e le opportunità della politica del dialogo. L’Afghanistan, si sa, è tutto e il contrario di tutto.
Da quanto detto è possibile fare una valutazione realistica. Il governo afghano, così come la comunità internazionale, ha come unica via di uscita il compromesso unito alla competizione con i gruppi di opposizione; ciò potrà avvenire solo lavorando su tre livelli differenti. Il primo, quella politico, deve basarsi sul dialogo con i moderati e puntare a una soluzione di compromesso, anche se questo comporterà, come prezzo da pagare, una revisione dei diritti civili. Il secondo livello è quello militare, perseguito combattendo gli elementi radicali e non disposti al dialogo e con il coinvolgimento attivo nella guerra di tutti gli attuali partecipanti alla missione Isaf. Infine quello più delicato, il livello sociale, da perseguire migliorando le condizioni di vita e venendo incontro alle aspettative della popolazione in termini di sicurezza, qualità della vita, istruzione, benessere e non disdegnando di sfruttare una politica di propaganda aggressiva e invasiva.
Prima di tutto, sarà necessario che la comunità internazionale e il governo di Kabul riescano a contrapporre al messaggio distruttivo dei gruppi di opposizione il proprio, costruttivo e semplificato, dimostrando come la politica di opposizione sia destinata a un’acutizzazione della situazione già precaria. A questo scopo è però fondamentale lasciare che la politica sia condotta dai legittimi rappresentanti afghani, senza ingerenza alcuna da parte di governi stranieri. Non è cosa facile.
Claudio Bertolotti
20 ottobre 2009