di Claudio Bertolotti
Il mullah Mohammad
Omar, leader dei taliban dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, è morto almeno
da due anni; da più fonti viene confermato che il decesso risalirebbe
all’aprile del 2013, probabilmente in Pakistan. Questi i fatti, ma le dinamiche
rimangono incerte, così come incerti sono i possibili scenari futuri; quel che
è indubbio è che la morte del mullah Omar sia un fatto significativo sul piano
politico e su quello simbolico.
Dalle informazioni
disponibili, e sulla base delle dichiarazioni ‘formali’ diffuse dallo stesso
movimento attraverso il sito Web ufficiale dell’Emirato islamico
dell’Afghanistan, il mullah Akhtar Mohammad Mansour lo ha formalmente
sostituito, essendo stato designato quale suo successore da un’assemblea di
notabili taliban, sebbene attraverso un processo collegiale da più parti
contestato; al suo fianco ci sarà Sirajuddin Haqqani, capo dell’‘Haqqani
network’ (l’organizzazione vicina ad al-Qa’ida), e figlio del defunto Jalaluddin
Haqqani, importante mujaheddin e figura di spicco della galassia taliban.
È prevedibile che
questo cambio al vertice del movimento possa indurre a un processo di
sfaldamento e frammentazione del fronte insurrezionale.
Chi è il mullah Akhtar Mohammad Mansour e quale ruolo
può giocare nell’Afghanistan post-Omar? E ancora, quali dinamiche verranno a
imporsi all’interno del movimento Taliban?
L’uomo scelto per
sostituire il mullah Omar nella guida del movimento dei taliban è stato a lungo
comandante de facto del principale
gruppo di opposizione armata afghano, sedendo nella posizione di vertice della
shura di Quetta. Già ministro dell’aviazione durante il regime taliban dal 1996
al 2001, divenne vice del mullah Omar sostituendo Abdul Ghani Baradar, catturato
dall’intelligence pakistana in cooperazione con gli Stati Uniti nel 2010.
Mansour è generalmente
definito come un pragmatico, propenso a un dialogo negoziale, sebbene si sia
dimostrato in parte scettico per il ruolo crescente del Pakistan in tale
processo.
Al pari del mullah Omar
gode di una base politico-sociale nell’area di Kandahar, ha studiato presso
stesso istituto religioso fuori Peshawar, la Darul Uloom Haqqania madrassa; e, così come per il mullah
Omar, di lui non esistono che poche fotografie e dettagli biografici.
Sul piano politico, un elemento significativo è
rappresentato dal suo recente appello rivolto a Daesh/ISIS affinché siano
evitate frammentazioni del fronte jihadista globale e il passaggio sotto la
bandiera dei taliban di tutti i combattenti impegnati nella guerra in
Afghanistan.
La tempistica dell’informazione
Ciò che emerge
dall’analisi delle dinamiche afghane dell’ultimo mese, oltre alla la volontà
degli stessi taliban di mantenerne vivo il mito, sono le speculazioni sulla
capacità di tenuta della nuova leadership nei confronti del variegato fronte
insurrezionale afghano.
Un elemento
da non sottovalutare è il ritardo della comunicazione dell’evento; un ritardo
intenzionale e finalizzato a non provocare cedimenti strutturali di
un’organizzazione insurrezionale che, da sempre, è tutt’altro che fluida e
instabile. Almeno due anni sarebbero trascorsi dalla morte del capo dei
taliban, la guida del movimento che ha saputo opporre una spietata ed efficace resistenza
all’occupazione statunitense e che, a distanza di quattordici anni, non ha
cessato di essere l’elemento destabilizzante dell’intera area regionale e un
fattore di preoccupazione globale.
Ma la
tempistica dell’informazione è sospetta. Certamente lo è dal punto di vista di
chi sostiene il dialogo negoziale con il governo afghano, poiché risponde
all’opportunità di quella parte del movimento contraria al dialogo negoziale.
E ciò
metterebbe a rischio l’auspicato processo di pace poiché porrebbe in condizione
di svantaggio quella parte del fronte insurrezionale propensa all’accordo; al
contrario, chi sostiene la necessità e l’opportunità di proseguire il confronto
sul campo di battaglia ne trarrebbe un vantaggio sostanziale, allontanando la
possibilità di un accordo negoziale che precluderebbe alcuni benefici, tra i
quali anche i proventi derivanti dal narcotraffico transnazionale e l’accesso a
fonti di finanziamento: vantaggi che una condizione di guerra cronica è invece
in grado di garantire.
Si chiude formalmente un’epoca, si aprono molteplici e
dinamici scenari
In primis si impone la questione del cambio
del vertice. Il leader designato dalla suprema shura, l’assemblea dei capi
taliban, è il mullah Mansour, de facto
leader del movimento, dal 2010 braccio destro del mullah Omar e aperto
all’ipotesi di un negoziato con il governo afghano. Ma questo non significa che
la leadership del movimento in Pakistan, né i comandanti operativi in
Afghanistan, siano disposti ad accettare una nomina che ha tenuto fuori dai
giochi una parte cospicua della dirigenza insurrezionale. Al contrario, molti
sarebbero gli indicatori di un quadro tutt’altro che definito, a cominciare da
alcune dichiarazioni facenti riferimento all’inconsistenza di un qualunque
processo di pace che possa veder coinvolto il governo afghano.
Il secondo
fattore, che discende dal primo (la successione), è dato dalla capacità della
leadership taliban nel mantenere unito il fronte insurrezionale, senza che il
cambio al vertice del movimento possa portare verso nuove frammentazioni e
all’emergere di ulteriori conflittualità. Alcuni indicatori evidenzierebbero
sviluppi non certo favorevoli, a partire da alcune dichiarazioni di comandanti
taliban disposti a continuare a combattere. In particolare, il vertice della
componente militare del movimento, il mullah Qaum Zakir, così come Tayeb Agha,
capo dell’ufficio politico dei taliban in Qatar, così come il mullah
Habibullah, membro della shura di Quetta: correnti interne al movimento che
insistono per un passaggio pieno dei poteri al figlio del mullah Omar, Yaqub,
accusando al tempo stesso i circoli pro-pakistani di voler imporre la
leadership del mullah Mansour al fianco del quale sempre il Pakistan avrebbe
insistito per avere Haqqani.
Infine, un
terzo fattore che deve essere considerato è dato dalle spinte esterne sul
processo di frammentazione del fronte insurrezionale; si tratta di spinte e
dinamiche riconducibili alla diffusione del fenomeno Daesh/ISIS e a quel
processo di costruzione di un ruolo di primo piano in Afghanistan e nel
sub-continente indiano. Alcuni ex-comandanti taliban avrebbero già aderito al
nuovo modello di jihadismo insurrezionale (o ‘Nuovo terrorismo insurrezionale’
– NIT, New Insurrectional Terrorism),
dando il via a una nuova fase caratterizzata da processi di scissione più o
meno significativi e, di conseguenza, innalzando il livello di conflittualità
intra/inter-movimento, così come dimostrato dai numerosi episodi di scontri tra
gruppi rivali e all’aumento di azioni ‘spettacolari’ il cui fine, al di là
dell’effettivo risultato sul campo di battaglia, rimane l’attenzione mediatica
e il conseguente riconoscimento da parte di Daesh/ISIS, e relativo supporto.
Le difficoltà del nuovo leader dei taliban
Il rinvio
del secondo incontro finalizzato al dialogo negoziale tra i taliban e il
governo afghano, in origine pianificato per il 31 luglio (o 3 agosto), può
essere letto come un tentativo da parte di Mansour di consolidare la propria
posizione e placare gli animi degli elementi più oltranzisti del movimento
taliban e, non da ultimo, di indebolire sempre più la fazione che sta
sostenendo Yakub nel suo tentativo di delegittimare Mansour e il suo entourage.
L’azzardo di
Mansour potrebbe aver ha minato le fondamenta di un equilibrio da lui costruito
e consolidato negli anni al fine di riunire e rafforzare la shura di Quetta
sotto la propria direzione; tale indebolimento potrebbe avere dirette
ripercussioni sulle finanze del movimento poiché l’accesso alle donazioni e
alle fonti finanziarie non è cosa scontata in un momento particolare in cui, a
fronte di una possibile frammentazione del movimento, si impone la crescente
presenza e la capacità operativa di Daesh/ISIS.
Ma se anche
Mansour decidesse di lasciare il movimento avviando una scissione dagli effetti
certamente destabilizzanti per l’intero movimento, il rischio sarebbe di
-
mettere a
repentaglio l’intero processo di pace che lo vede coinvolto in prima persona
insieme al Pakistan, che in tale processo è riuscito a imporsi con un ruolo da
attore di primo piano,
-
perdere il
sostegno degli sponsor stranieri e degli alleati (in tale dinamica potrebbe
rientrare la recente dichiarazione di fedeltà di al-Qa’ida fatta da al-Zawairi;
si rimanda alla successiva sezione), e
-
portare alla
frammentazione del movimento e della stessa shura di Quetta.
Sebbene al
momento una scissione definitiva appaia ancora come poco probabile, Yakub
sembrerebbe intenzionato ad organizzare una campagna interna contro Mansour, al
fine di riuscire a farsi riconoscere come leader di riferimento dalla galassia
insurrezionale che combatte sotto l’insegna dell’Emirato islamico dei taliban.
Per contro,
se Mansour decidesse di procedere comunque con il processo di pace,
indipendentemente dal coinvolgimento della maggior parte degli altri leader
taliban, le possibilità di un successo si ridurrebbero in maniera
significativa. Al tempo stesso, si concretizzerebbe il rischio di una
diminuzione dei fondi messi a disposizione dai donatori stranieri e ciò
porterebbe a un ulteriore inasprimento delle lotte interne (fondi che, per altro,
hanno registrato una progressiva diminuzione provocando disequilibri e nuove
conflittualità).
Analisi, valutazioni, previsioni
Quali i
rischi di un fenomeno insurrezionale frammentato?
Se da un
lato la prosecuzione del dialogo negoziale e l’apertura a un processo di power-sharing inclusivo dei taliban (un
riconoscimento de jure del potere
conquistato de facto sul campo di
battaglia e la spartizione sostanziale del paese e delle sue risorse) può
indurre una parte del fronte insurrezionale a continuare la lotta (in
contrapposizione a quella propensa a scendere a patti e a spartire il potere
con il governo afghano), dall’altro si impongono tre dinamiche, che discendono
dal processo di successione alla guida del movimento, più una:
-
la prima è
l’assunzione del potere da parte di una leadership propensa al dialogo
negoziale. Uno sviluppo che potrebbe provocare una polarizzazione delle
correnti favorevoli/contrarie a un processo di pace ormai in corso che vede il
Pakistan alla ricerca di un ruolo di primo piano.
-
La seconda è
rappresentata dal rischio di scissione del fronte insurrezionale; ciò si
concretizzerebbe in competizione e scontro aperto tra le parti.
-
La terza
dinamica è rappresentata dal rischio di trasformazione del conflitto, da guerra
di tipo ‘nazionale’ (la resistenza dei mujaheddin afghani) a guerra ‘globale’
(scontro ideologico sostenuto e alimentato da Daesh/ISIS); ciò potrebbe portare
l’Afghanistan ad essere investito da quel processo conflittuale di maggiore
rilevanza che sta infiammando l’intero arco del Grande Medio-oriente.
-
La quarta
dinamica è invece rappresentata dalla recente dichiarazione di ‘alleanza’ (bayat) di al-Qa’ida ufficializzata
direttamente dall’emiro Ayman Zawahiri a cui ha fatto seguito la risposta
positiva di Mansour. Una presa di posizione formale che, confermando
un’alleanza storica, vuole essere un contributo al piano di consolidamento del
ppotere da parte di mansour e, al contempo, punta a limitare la possibile e
imminente frammentazione.
In tale
contesto vanno a d aggiungersi ulteriori elementi dinamizzanti che avranno la
forza di influire significativamente sugli sviluppi conflittuali
dell’Afghanistan e che avranno conseguenze dirette sull’intera area regionale.
In primo luogo, la penetrazione incontrastata di soggetti affiliati a
Daesh/ISIS di cui si è fatto cenno; fonte di preoccupazione del governo afghano
e degli Stati Uniti tanto da indurre le due parti a concordare una
decelerazione del ritiro delle truppe combattenti (e non) dal paese e il
mantenimento di un significativo contingente di forze speciali con funzione di
contro-terrorismo.
È dunque
iniziata una nuova fase della guerra in Afghanistan.