di Claudio Bertolotti
L’Italia
Salvo improbabili inversioni di rotta, l’Italia manterrà il proprio contingente militare in Afghanistan unitamente agli altri alleati della NATO partecipanti alla nuova missione dell’Alleanza atlantica, la “Resolute Support Mission”.
Sul piano quantitativo sarà un impegno ridotto rispetto a quello degli ultimi dodici anni: non meno di 800 uomini, non più di 1.800 (sul totale di 10-15.000) impegnati, in particolare, nel delicato ruolo di “advisor” al fianco dei colleghi afghani; al nucleo di consiglieri si unirà una componente non secondaria di forze per operazioni speciali.
Un impegno, nel complesso, già pianificato sebbene nell’attesa di disposizioni più dettagliate che arriveranno da Bruxelles (NATO HQ) non appena Washington avrà definito l’entità e la natura della presenza di forze statunitensi su suolo afghano. Tutto ciò, sul piano formale e diplomatico, dipende da quando (essendo solamente una questione di tempi) il governo afghano (nella persona del nuovo presidente della repubblica) firmerà il tanto atteso Bilateral Security Agreement con gli Stati Uniti e, a seguire, con i partner dell’Alleanza atlantica.
Ciò che appare ormai evidente è l’efficace «ostruzionismo aggressivo» adottato da Karzai, deciso a non firmare alcun accordo con gli Stati Uniti; Stati Uniti che si sono formalmente rassegnati ad attendere l’esito delle elezioni presidenziali del 5 aprile prossimo per proporre al successore dell’attuale presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan un accordo politico-militare che consenta alle truppe straniere di garantire l’avvio della nuova missione.
Gli Stati Uniti
Dunque, nell’attesa di formalizzare l’impegno futuro, preparandosi comunque al peggio (il riferimento va all’«opzione zero», ossia il ritiro di tutti i soldati stranieri dal teatro afghano), gli Stati Uniti propendono per un approccio diplomatico energico predisponendo una via di uscita supplementare dal pantano afghano che possa essere posta sul tavolo negoziale al quale siederà il successore di Karzai.
Data la condizione di stallo dinamico dove gli attori in scena mostrano intenzioni più formali che sostanziali, è logico valutare come altamente improbabile da parte degli Stati Uniti un ritiro totale che comporterebbe una rinuncia agli strategici vantaggi derivanti da una presenza a lungo termine in Asia meridionale; ma ciò che emerge è un nervosismo diffuso alimentato da una frustrante politica del braccio di ferro psicologico a cui l’attuale governo afghano pare non intendere porre fine.
A febbraio, dopo mesi di resistenze e disaccordi tra Washington e Kabul, il presidente Obama ha chiamato ufficialmente l’omologo afghano – la prima telefonata tra i due leader dal giugno del 2013 – comunicando di aver ordinato al Pentagono di studiare un piano di ritiro totale delle truppe dal teatro afghano entro la fine del 2014: una decisione presa ufficialmente dalla Casa Bianca, un atto formale ritenuto necessario e imprescindibile per l’amministrazione statunitense.
Al di là della scelta di forza dall’ampio effetto politico e mediatico, gli Stati Uniti lasceranno comunque un contingente militare ridotto anche dopo il termine della missione “combat” della NATO che avverrà a dicembre di quest’anno a conferma di un impegno preso con l’Afghanistan – e questo indipendentemente dalla firma dell’accordo; un impegno che ci si aspetta verrà confermato dal successore di Karzai, il soggetto su cui si riversano le speranze di una ripresa formale del dialogo tra i due alleati.
Anticipando la discussione dei ministri della difesa dell’Alleanza atlantica di febbraio, il presidente Obama ha così minacciato e predisposto formalmente la pianificazione del ritiro quasi completo delle forze armate statunitensi dall’Afghanistan. In particolare, la specifica richiesta fatta al Pentagono è orientata a garantire l’esecuzione di un completo ed efficace ritiro di tutte le truppe entro la fine del 2014 e, al contempo, la capacità – previa firma del BSA da parte del successore di Karzai – di mantenere una presenza minima capace di sostenere una missione di «training», «advising» e «assisting» a favore delle forze di sicurezza afghane e condurre, parallelamente, operazioni mirate contro elementi residui di Al-Qa’ida. Ciò che complica la realizzazione di tale intendimento è che più in avanti nel tempo viene procrastinata la firma del BSA più ridotto potrebbe essere l’impegno statunitense (e della NATO) nel sostegno all’esercito e allo stato afghani.
Una scelta politica, quella di Obama, che ha anticipato l’importante incontro dei vertici militari statunitensi, il generale Martin Dempsey, chairman del Joint Chiefs of Staff, e il Segretario alla Difesa statunitense Chuck Hagel; un incontro preparatorio alla strategia poi presentata al summit della NATO di Bruxelles il 26 febbraio scorso e orientata allo sforzo comune per la formalizzazione del BSA.
Commentando la decisione di Obama, il generale Dempsey ha affermato che la pianificazione dell’impegno in Afghanistan a partire dal 2015 è certamente importante, così come è importante il lavoro che al momento viene condotto e deve essere portato a termine, in particolare l’attività “advising” a favore delle forze di sicurezza afghane e il contributo alla sicurezza delle elezioni presidenziali di aprile.
Sul piano politico e diplomatico, gli Stati Uniti hanno confermato ancora una volta di voler sostenere la sovranità di uno stato afghano stabile, unito e democratico attraverso una partnership basata sul principio del mutuo rispetto e collaborazione.
Infine, la NATO
Gli Stati Uniti insistono anche sul piano delle relazioni internazionali; lo fanno chiedendo ai partner della NATO di fare fronte comune nei confronti del governo afghano in merito al BSA. E gli alleati, sposando la linea politica di Washington, hanno annunciato di voler pianificare il ritiro anticipato delle proprie truppe in assenza dell’accordo con Kabul (Bruxelles, 2014). Una vittoria, scontata, dell’amministrazione statunitense che è riuscita così ad aumentare la pressione sul presidente uscente nell’attesa del suo successore.
Nel merito, il rappresentante permanente degli Stati Uniti presso la NATO, l’ambasciatore Doug Lute, ha insistito sulla situazione politica e la sicurezza in Afghanistan (in particolare il livello di capacità operativa delle forze di sicurezza afghane – al momento incapaci di operare in autonomia al fine di contrastare il fenomeno insurrezionale –), e sull’opportunità di proseguire con la missione della NATO, nonostante il ritardo nella firma del BSA e l’attuale assenza di uno Status of Forces Agreement che dia la copertura legale alla presenza di truppe straniere su suolo afghano.
L’ambasciatore Lute, in tal senso, ha chiesto ai ministri della difesa della NATO di valutare la situazione della sicurezza in Afghanistan proprio alla luce degli sviluppi in corso delle forze di sicurezza afghane e dell’importanza della nuova missione finalizzata proprio ad aumentare le capacità operative e organizzative delle forze armate di Kabul. Tutto ciò potrà essere realizzato, ha ribadito Lute, solo ed esclusivamente a seguito della formalizzazione del BSA, già approvato dalla maggioranza dei «notabili» afghani partecipanti alla tradizionale Loya Jirga (organo consultivo non istituzionale voluto dal presidente Karzai) tenutasi il novembre scorso a Kabul ma rimasto inascoltato da un Karzai sordo, da un lato, agli appelli della Comunità internazionale e impegnato, dall’altro, in un dialogo con i taliban.
Anche i ministri della difesa dei paesi NATO hanno riaffermato, nella consapevolezza di un nuovo e necessario impegno comune dell’Alleanza atlantica nell’Afghanistan post-2014, l’importanza di un accordo formale con il governo di Kabul; un accordo che deve concretizzarsi con la firma del BSA: un atto politico, conditio sine qua non, da realizzare prima della chiusura dell’International Security Assistance Force (ISAF), pena il ritiro immediato dei contingenti militari.
Dunque, almeno a parole, anche la NATO si starebbe preparando per il ritiro completo delle proprie unità schierate sul campo di battaglia afghano; una scelta in contrasto con il principio di opportunità strategica ma, come noto, l’ars diplomatica è fatta anche di bluff e azzardi politici.
E infatti, a fronte del vivace dinamismo da parte dell’Alleanza atlantica, sul fronte istituzionale afghano il portavoce del presidente, Aimal Faizi, ha confermato che Karzai non ha posto tra le priorità nell’agenda di governo la firma dell’accordo bilaterale sulla sicurezza poiché al momento impegnato nel tentativo di riconciliazione con i taliban.
La presa di posizione della NATO è stata formalizzata alla chiusura del meeting di Bruxelles, due giorni dopo la chiamata di Obama a Karzai e l’annuncio della predisposizione da parte del Pentagono di un piano di ritiro totale. Ma è improbabile che tale ipotesi possa trovare realizzazione pratica; e infatti, il Segretario di Stato Chuck Hagel e il Segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen hanno precisato che confidano comunque nella firma dell’accordo da parte del successore di Karzai. Dunque tutto è rinviato al dopo elezioni di aprile.
Breve analisi conclusiva
Sul piano formale, lo scoglio principale rimane dunque la firma del BSA tra Washington e Kabul a cui seguirà naturalmente quello tra Kabul e la NATO.
Tutto lascia supporre che, sebbene con notevole ritardo rispetto all’agenda statunitense, l’accordo possa essere firmato dal nuovo esecutivo prima dell’estate, spostando semplicemente sul piano temporale l’applicazione concreta di un necessario accordo politico. Nella peggiore delle ipotesi, qualora nessun candidato alla poltrona presidenziale dovesse ottenere la maggioranza schiacciante, l’accordo potrebbe essere concluso anche nel tardo autunno o all’inizio dell’inverno: tardi per consentire un disimpegno razionale e sostenibile, sia dal punto di vista logistico-operativo, sia su quello economico.
È dunque evidente che Karzai non vuole compromettersi; così come è evidente che stia facendo il possibile per evitare di chiudere l’esperienza di governo con un accordo che, da un lato, legherebbe il suo nome a quello degli Stati Uniti (e alla presenza di truppe straniere) e, dall’altro impedirebbe qualunque accordo di compromesso (anche personale e familiare) con i principali gruppi di opposizione armata (taliban in primis).
Sul piano quantitativo sarà un impegno ridotto rispetto a quello degli ultimi dodici anni: non meno di 800 uomini, non più di 1.800 (sul totale di 10-15.000) impegnati, in particolare, nel delicato ruolo di “advisor” al fianco dei colleghi afghani; al nucleo di consiglieri si unirà una componente non secondaria di forze per operazioni speciali.
Un impegno, nel complesso, già pianificato sebbene nell’attesa di disposizioni più dettagliate che arriveranno da Bruxelles (NATO HQ) non appena Washington avrà definito l’entità e la natura della presenza di forze statunitensi su suolo afghano. Tutto ciò, sul piano formale e diplomatico, dipende da quando (essendo solamente una questione di tempi) il governo afghano (nella persona del nuovo presidente della repubblica) firmerà il tanto atteso Bilateral Security Agreement con gli Stati Uniti e, a seguire, con i partner dell’Alleanza atlantica.
Ciò che appare ormai evidente è l’efficace «ostruzionismo aggressivo» adottato da Karzai, deciso a non firmare alcun accordo con gli Stati Uniti; Stati Uniti che si sono formalmente rassegnati ad attendere l’esito delle elezioni presidenziali del 5 aprile prossimo per proporre al successore dell’attuale presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan un accordo politico-militare che consenta alle truppe straniere di garantire l’avvio della nuova missione.
Gli Stati Uniti
Dunque, nell’attesa di formalizzare l’impegno futuro, preparandosi comunque al peggio (il riferimento va all’«opzione zero», ossia il ritiro di tutti i soldati stranieri dal teatro afghano), gli Stati Uniti propendono per un approccio diplomatico energico predisponendo una via di uscita supplementare dal pantano afghano che possa essere posta sul tavolo negoziale al quale siederà il successore di Karzai.
Data la condizione di stallo dinamico dove gli attori in scena mostrano intenzioni più formali che sostanziali, è logico valutare come altamente improbabile da parte degli Stati Uniti un ritiro totale che comporterebbe una rinuncia agli strategici vantaggi derivanti da una presenza a lungo termine in Asia meridionale; ma ciò che emerge è un nervosismo diffuso alimentato da una frustrante politica del braccio di ferro psicologico a cui l’attuale governo afghano pare non intendere porre fine.
A febbraio, dopo mesi di resistenze e disaccordi tra Washington e Kabul, il presidente Obama ha chiamato ufficialmente l’omologo afghano – la prima telefonata tra i due leader dal giugno del 2013 – comunicando di aver ordinato al Pentagono di studiare un piano di ritiro totale delle truppe dal teatro afghano entro la fine del 2014: una decisione presa ufficialmente dalla Casa Bianca, un atto formale ritenuto necessario e imprescindibile per l’amministrazione statunitense.
Al di là della scelta di forza dall’ampio effetto politico e mediatico, gli Stati Uniti lasceranno comunque un contingente militare ridotto anche dopo il termine della missione “combat” della NATO che avverrà a dicembre di quest’anno a conferma di un impegno preso con l’Afghanistan – e questo indipendentemente dalla firma dell’accordo; un impegno che ci si aspetta verrà confermato dal successore di Karzai, il soggetto su cui si riversano le speranze di una ripresa formale del dialogo tra i due alleati.
Anticipando la discussione dei ministri della difesa dell’Alleanza atlantica di febbraio, il presidente Obama ha così minacciato e predisposto formalmente la pianificazione del ritiro quasi completo delle forze armate statunitensi dall’Afghanistan. In particolare, la specifica richiesta fatta al Pentagono è orientata a garantire l’esecuzione di un completo ed efficace ritiro di tutte le truppe entro la fine del 2014 e, al contempo, la capacità – previa firma del BSA da parte del successore di Karzai – di mantenere una presenza minima capace di sostenere una missione di «training», «advising» e «assisting» a favore delle forze di sicurezza afghane e condurre, parallelamente, operazioni mirate contro elementi residui di Al-Qa’ida. Ciò che complica la realizzazione di tale intendimento è che più in avanti nel tempo viene procrastinata la firma del BSA più ridotto potrebbe essere l’impegno statunitense (e della NATO) nel sostegno all’esercito e allo stato afghani.
Una scelta politica, quella di Obama, che ha anticipato l’importante incontro dei vertici militari statunitensi, il generale Martin Dempsey, chairman del Joint Chiefs of Staff, e il Segretario alla Difesa statunitense Chuck Hagel; un incontro preparatorio alla strategia poi presentata al summit della NATO di Bruxelles il 26 febbraio scorso e orientata allo sforzo comune per la formalizzazione del BSA.
Commentando la decisione di Obama, il generale Dempsey ha affermato che la pianificazione dell’impegno in Afghanistan a partire dal 2015 è certamente importante, così come è importante il lavoro che al momento viene condotto e deve essere portato a termine, in particolare l’attività “advising” a favore delle forze di sicurezza afghane e il contributo alla sicurezza delle elezioni presidenziali di aprile.
Sul piano politico e diplomatico, gli Stati Uniti hanno confermato ancora una volta di voler sostenere la sovranità di uno stato afghano stabile, unito e democratico attraverso una partnership basata sul principio del mutuo rispetto e collaborazione.
Infine, la NATO
Gli Stati Uniti insistono anche sul piano delle relazioni internazionali; lo fanno chiedendo ai partner della NATO di fare fronte comune nei confronti del governo afghano in merito al BSA. E gli alleati, sposando la linea politica di Washington, hanno annunciato di voler pianificare il ritiro anticipato delle proprie truppe in assenza dell’accordo con Kabul (Bruxelles, 2014). Una vittoria, scontata, dell’amministrazione statunitense che è riuscita così ad aumentare la pressione sul presidente uscente nell’attesa del suo successore.
Nel merito, il rappresentante permanente degli Stati Uniti presso la NATO, l’ambasciatore Doug Lute, ha insistito sulla situazione politica e la sicurezza in Afghanistan (in particolare il livello di capacità operativa delle forze di sicurezza afghane – al momento incapaci di operare in autonomia al fine di contrastare il fenomeno insurrezionale –), e sull’opportunità di proseguire con la missione della NATO, nonostante il ritardo nella firma del BSA e l’attuale assenza di uno Status of Forces Agreement che dia la copertura legale alla presenza di truppe straniere su suolo afghano.
L’ambasciatore Lute, in tal senso, ha chiesto ai ministri della difesa della NATO di valutare la situazione della sicurezza in Afghanistan proprio alla luce degli sviluppi in corso delle forze di sicurezza afghane e dell’importanza della nuova missione finalizzata proprio ad aumentare le capacità operative e organizzative delle forze armate di Kabul. Tutto ciò potrà essere realizzato, ha ribadito Lute, solo ed esclusivamente a seguito della formalizzazione del BSA, già approvato dalla maggioranza dei «notabili» afghani partecipanti alla tradizionale Loya Jirga (organo consultivo non istituzionale voluto dal presidente Karzai) tenutasi il novembre scorso a Kabul ma rimasto inascoltato da un Karzai sordo, da un lato, agli appelli della Comunità internazionale e impegnato, dall’altro, in un dialogo con i taliban.
Anche i ministri della difesa dei paesi NATO hanno riaffermato, nella consapevolezza di un nuovo e necessario impegno comune dell’Alleanza atlantica nell’Afghanistan post-2014, l’importanza di un accordo formale con il governo di Kabul; un accordo che deve concretizzarsi con la firma del BSA: un atto politico, conditio sine qua non, da realizzare prima della chiusura dell’International Security Assistance Force (ISAF), pena il ritiro immediato dei contingenti militari.
Dunque, almeno a parole, anche la NATO si starebbe preparando per il ritiro completo delle proprie unità schierate sul campo di battaglia afghano; una scelta in contrasto con il principio di opportunità strategica ma, come noto, l’ars diplomatica è fatta anche di bluff e azzardi politici.
E infatti, a fronte del vivace dinamismo da parte dell’Alleanza atlantica, sul fronte istituzionale afghano il portavoce del presidente, Aimal Faizi, ha confermato che Karzai non ha posto tra le priorità nell’agenda di governo la firma dell’accordo bilaterale sulla sicurezza poiché al momento impegnato nel tentativo di riconciliazione con i taliban.
La presa di posizione della NATO è stata formalizzata alla chiusura del meeting di Bruxelles, due giorni dopo la chiamata di Obama a Karzai e l’annuncio della predisposizione da parte del Pentagono di un piano di ritiro totale. Ma è improbabile che tale ipotesi possa trovare realizzazione pratica; e infatti, il Segretario di Stato Chuck Hagel e il Segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen hanno precisato che confidano comunque nella firma dell’accordo da parte del successore di Karzai. Dunque tutto è rinviato al dopo elezioni di aprile.
Breve analisi conclusiva
Sul piano formale, lo scoglio principale rimane dunque la firma del BSA tra Washington e Kabul a cui seguirà naturalmente quello tra Kabul e la NATO.
Tutto lascia supporre che, sebbene con notevole ritardo rispetto all’agenda statunitense, l’accordo possa essere firmato dal nuovo esecutivo prima dell’estate, spostando semplicemente sul piano temporale l’applicazione concreta di un necessario accordo politico. Nella peggiore delle ipotesi, qualora nessun candidato alla poltrona presidenziale dovesse ottenere la maggioranza schiacciante, l’accordo potrebbe essere concluso anche nel tardo autunno o all’inizio dell’inverno: tardi per consentire un disimpegno razionale e sostenibile, sia dal punto di vista logistico-operativo, sia su quello economico.
È dunque evidente che Karzai non vuole compromettersi; così come è evidente che stia facendo il possibile per evitare di chiudere l’esperienza di governo con un accordo che, da un lato, legherebbe il suo nome a quello degli Stati Uniti (e alla presenza di truppe straniere) e, dall’altro impedirebbe qualunque accordo di compromesso (anche personale e familiare) con i principali gruppi di opposizione armata (taliban in primis).
Comunque
sia, chiuso il capitolo “Karzai”, si aprirà una nuova fase politica
afghana; difficile dire quanto differente sarà da quella in fase di
conclusione e quanto potrà durare: anche in questa occasione i tempi
afghani hanno prevalso sulla logica strategica e sulla razionale volontà
organizzativa occidentale.