di Claudio Bertolotti
Nel
gennaio del 2002, oltre sessanta nazioni e venti organizzazioni internazionali
presero parte all’Afghanistan Recovery
and Reconstruction Conference a Tokyo, promettendo circa due miliardi di
dollari per quell’anno e più del doppio per il quinquennio successivo da
destinare alla ricostruzione dell’Afghanistan.
Dieci
anni dopo, l’8 luglio 2012, oltre settanta nazioni e organizzazioni
internazionali si sono date appuntamento nella stessa città per definire i
termini quantitativi dell’impegno internazionale nella fase «transizione» che
ha seguito quella di una «stabilizzazione» dichiarata conclusa sul piano
formale ma non certamente su quello reale. Non solo sicurezza: l’impegno
collettivo si rivolgerà certamente al sostegno delle forze armate afghane ma
principalmente ai progetti infrastrutturali e al supporto dello Stato afghano e
alle sue esigenze in termini di sviluppo infrastrutturale e socio-economico.
Sedici
miliardi di dollari, a tanto corrisponde l’impegno collettivo della Comunità
internazionale nei confronti dell’Afghanistan per i prossimi quattro anni; uno
sforzo economico non indifferente ma inversamente proporzionale all’impegno
militare che progressivamente verrà ridimensionato da parte di tutti i
componenti l’Alleanza, chi più e chi meno, sino al raggiungimento di un
equilibrio di forze non ancora reso pubblico ma che dovrebbe consistere in
10-30.000 soldati.
La prospettiva di un disimpegno significativo
della Nato dal teatro operativo afghano porta a riflettere circa le possibili
ripercussioni sul processo di pace e stabilizzazione dell’Afghanistan, sul
ruolo dei gruppi di opposizione che si battono per il potere e sull’evoluzione
della sicurezza a livello regionale e globale. La «transizione irreversibile» –
come l’ha definita Obama – contribuirà alla stabilità del Paese o piuttosto ad
alimentare un variegato conflitto armato interno?
La storia recente dell’Afghanistan
induce a un’analisi orientata a non escludere il riaccendersi di intensi
conflitti armati interni dopo il disimpegno della Nato, così come avvenne dopo
il ritiro dei Sovietici alla fine degli anni Ottanta e successivi anni Novanta;
è questo un quadro certamente non rassicurante che troverebbe riscontro
nell’accesa conflittualità dei gruppi di potere – a cui si uniscono quelli di
opposizione armata – pashtun e non-pashtun. Taliban ed ex Alleanza del Nord
potrebbero dunque trovarsi nel breve periodo impegnati in un violento confronto
dagli esiti tanto incerti quanto irreversibili.
Ciò che però appare confortante è
l’apparente disponibilità di alcuni dei soggetti impegnati nei conflitti
afghani a una soluzione negoziale e di compromesso; certo sono ancora pochi i
risultati sinora raggiunti, ma si intravvede una qualche forma di apertura.
La riconciliazione nazionale, alla quale
sono stati chiamati ad aderire tutti gli attori afghani coinvolti nel
conflitto, può rappresentare una formula in grado di convincere se non tutti
almeno una significativa parte dei concorrenti alla lotta per il potere; i
vantaggi politici potrebbero essere equamente distribuiti, e con essi
certamente quelli economici derivanti dallo sfruttamento delle risorse
energetiche e minerarie del sottosuolo afghano e dai diritti di passaggio delle
pipeline. Un buon incentivo, tanto per cominciare, a cui si unirebbe l’impegno
della Comunità internazionale a sostenere economicamente l’Afghanistan per i
prossimi quattro anni.
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