di Claudio Bertolotti
Afghanistan - Kunar, 21 giugno 2010.
Attento suicida nel distretto di Shaigal: è la prima azione condotta da una donna nel più che trentennale conflitto afghano. Aveva perso tutta la sua famiglia in un bombardamento aereo della Nato, hanno dichiarato i taliban rivendicando l’azione condotta da Fahima.
Afghanistan - Kunar, 4 giugno 2011.
Un anno dopo l’episodio di Shaigal, un’altra attentatrice si lascia esplodere contro le forze straniere uccidendo tre interpreti afghani e ferendo alcuni soldati Isaf nel distretto di Marwara. Anche in questo caso i taliban hanno rivendicato la paternità dell’azione attribuendo alla donna il titolo di Mujahida.
Teorie contrastanti definiscono il ruolo delle donne nell’ambito degli attacchi suicidi. Gli esempi a cui è possibile attingere per lo studio del fenomeno nella sua variante femminile sono molti. Dall’attività di supporto ad azioni terroristiche agli attacchi suicidi veri e propri, le donne hanno dimostrato con i fatti di essere in possesso dei requisiti di “combattenti” e, al tempo stesso, di “martiri” –, seppur con limiti e caratteristiche peculiari che le distinguono dalla figura dell’omologo maschile. Un elevato numero di attentatrici ha indirettamente trovato impiego in operazioni suicide che richiedessero l’infiltrazione all’interno di gruppi, organizzazioni o infrastrutture con un elevato livello di sicurezza. Minor sospettabilità, remore culturali che limita le perquisizioni corporali, possibilità di simulare la condizione di gestante per celare gli equipaggiamenti esplosi: iecco le ragioni per cui in alcuni contesti le donne sono preferibili agli uomini. Ma non in Afghanistan.
Mentre per gli uomini la religione offre una giustificazione anche di fronte alla comunità, per le donne la situazione è differente. La società, il costume e la cultura della comunità di appartenenza influiscono in maniera decisiva sul sostegno e sull’accettazione della tecnica suicida. Avviene così che, laddove il conflitto sia mosso da ideologie politiche laiche o di secessionismo etnico, le donne trovino impiego in azioni uguali o equiparabili a quelle degli uomini. Invece, nei casi in cui la religione rivesta un ruolo determinante, alla donna viene riservato il compito di “allevare buoni musulmani” – magari i “combattenti di domani” –offrendo loro al massimo un ruolo subordinato e marginale. È il tipo di lotta, la motivazione e l’ideologia del gruppo, a determinare il ruolo dei sessi sul campo di battaglia.
In generale, il fenomeno degli attacchi suicidi femminili è conseguenza di differenti fattori difficili da classificare in categorie stagne: la perdita di un caro a causa del conflitto, l’allontanamento dalla propria comunità, l’umiliazione e i soprusi utilizzati come arma psicologica, lo stress che ne deriva, la depressione, il desiderio di riscatto o vendetta, ma anche le violenze sessuali, gli effetti di droghe e stupefacenti, sino all’influenza indiretta di messaggi mediatici.
I 749 attentati suicidi registrati in Afghanistan dal 2001 a oggi hanno visto come protagonisti quasi esclusivamente individui di sesso maschile; due sole donne – più il caso di un’anziana arrestata durante il trasporto di un giubbetto esplosivo “non attivo” nel 2007 – hanno preso parte a un attacco di questa tipologia. Sono le due eccezioni alla norma.
Alla luce dell’esperienza vissuta in quella fantastica e terribile terra che è l’Afghanistan e di quanto ho avuto modo di carpire dalla realtà locale, ritengo che il fenomeno non abbia interessato la guerra afghana poiché tale conflitto non presentava sino a un paio di anni fa le connotazioni tipiche della lotta di liberazione nazionale dove le donne, al fianco degli uomini, partecipano alle “cose della guerra”.
Sebbene sinora il mancato riconoscimento dell’identità di donna – declassata spesso a strumento di procreazione – trovi dimostrazione in episodi e scelte politiche che mai avrebbero consentito a un soggetto femminile di aspirare al titolo di “martire”, oggi si possono intravvedere alcune condizioni favorevoli a un cambio di tendenza. Nonostante nelle aree sotto il controllo dei taliban la condizione della donna stia peggiorando sempre più e prosegua la crociata contro l’emancipazione femminile, si stanno registrando alcuni episodi di reclutamento di donne per azioni militari. Seppure i fatti stiano a dimostrare quanto poco valga la donna per i taliban, che mai ne farebbero una “combattente” di una guerra ideologica – dal momento che la stessa ideologia di riferimento nega alle donne anche solamente il diritto all‘identità – due donne hanno preso parte, dall’inizio del conflitto a oggi, ad azioni suicide contro le forze di sicurezza internazionali.
Oggi le cose sono dunque cambiate. I taliban insistono sul concetto di lotta di liberazione dell’Afghanistan, e la violenta offensiva insurrezionale richiede ogni giorno che passa più “martiri” da impiegare sul campo di battaglia. Ma è davvero così? Sul serio i taliban hanno accettato le donne tra le fila dei combattenti mujaheddin? E le donne accorrono numerose nei centri di reclutamento taliban? La risposta è no.
I cambiamenti politici avvenuti in Afghanistan negli ultimi venti anni hanno rappresentato, per le donne, un continuum di mutamenti circa il loro status e la loro posizione nella società. Negli anni Ottanta, il regime marxista (laico e secolarizzato) ha tentato di annullare, nella società tribale afghana, il principio patriarcale della famiglia. Ciò ha portato a reazioni violente e a un distacco irreparabile tra società e governo.
Dalla metà degli anni Novanta, la politica verso le donne è cambiata in modo sostanziale, con l’esclusione della partecipazione femminile dagli uffici pubblici e dall’ambito professionale; il regime taliban, a partire dal 1996, le ha obbligate ad allontanarsi visibilmente dalla società e ciò ha indotto alcune di loro a organizzarsi clandestinamente al fine di provvedere all’istruzione. Soltanto la cacciata dei taliban ha consentito un timido miglioramento della condizione femminile; ma per quanto tale condizione sia esclusiva delle realtà urbane, è pur sempre un risultato positivo che dovrebbe indurre la componente femminile a combattere per mantenere il “diritto di essere donna” piuttosto che scegliere di morire per dovervi rinunciare. I casi di suicidio femminile – e non di attacchi-suicidi – in Afghanistan hanno toccato livelli elevatissimi, tra i più alti del mondo, ma in tutti i casi registrati la motivazione è quella di una condizione di vita “al femminile” insoddisfacente, frustrante e senza via d’uscita: una condizione frutto della consuetudine. Anche il suicidio può essere un elemento di rottura, una sorta di reazione alla subordinazione assoluta al padre, prima, e al marito, per il resto della vita. E il suicidio è un grave peccato nell’Islam. Uccidendo se stesse le donne, non solo ottengono da sé una particolare forma di “libertà”, ma offendono – di fronte alla comunità – anche chi le ha maltrattate e umiliate.
È dunque il desiderio di libertà ad aver spinto le due donne afghane a morire per la causa taliban? Difficile crederlo. Non è una lodevole azione di lotta per la liberazione del proprio paese e per la difesa della propria cultura quella che vede l’impiego delle donne negli attacchi suicidi in Afghanistan. È più facile ritenere che si tratti di donne disperate, senza famiglia, «senza più onore»; donne che, avendo perso tutto, accettano di morire abbandonando i resti dei propri corpi nudi alla mercé di occhi profanatori e irrispettosi. No, non sono le donne afghane a farsi esplodere, sono i sottoprodotti della guerra, gli scarti di una società di cui sentono di non appartenere più.
5 giugno 2011
Afghanistan - Kunar, 21 giugno 2010.
Attento suicida nel distretto di Shaigal: è la prima azione condotta da una donna nel più che trentennale conflitto afghano. Aveva perso tutta la sua famiglia in un bombardamento aereo della Nato, hanno dichiarato i taliban rivendicando l’azione condotta da Fahima.
Afghanistan - Kunar, 4 giugno 2011.
Un anno dopo l’episodio di Shaigal, un’altra attentatrice si lascia esplodere contro le forze straniere uccidendo tre interpreti afghani e ferendo alcuni soldati Isaf nel distretto di Marwara. Anche in questo caso i taliban hanno rivendicato la paternità dell’azione attribuendo alla donna il titolo di Mujahida.
Teorie contrastanti definiscono il ruolo delle donne nell’ambito degli attacchi suicidi. Gli esempi a cui è possibile attingere per lo studio del fenomeno nella sua variante femminile sono molti. Dall’attività di supporto ad azioni terroristiche agli attacchi suicidi veri e propri, le donne hanno dimostrato con i fatti di essere in possesso dei requisiti di “combattenti” e, al tempo stesso, di “martiri” –, seppur con limiti e caratteristiche peculiari che le distinguono dalla figura dell’omologo maschile. Un elevato numero di attentatrici ha indirettamente trovato impiego in operazioni suicide che richiedessero l’infiltrazione all’interno di gruppi, organizzazioni o infrastrutture con un elevato livello di sicurezza. Minor sospettabilità, remore culturali che limita le perquisizioni corporali, possibilità di simulare la condizione di gestante per celare gli equipaggiamenti esplosi: iecco le ragioni per cui in alcuni contesti le donne sono preferibili agli uomini. Ma non in Afghanistan.
Mentre per gli uomini la religione offre una giustificazione anche di fronte alla comunità, per le donne la situazione è differente. La società, il costume e la cultura della comunità di appartenenza influiscono in maniera decisiva sul sostegno e sull’accettazione della tecnica suicida. Avviene così che, laddove il conflitto sia mosso da ideologie politiche laiche o di secessionismo etnico, le donne trovino impiego in azioni uguali o equiparabili a quelle degli uomini. Invece, nei casi in cui la religione rivesta un ruolo determinante, alla donna viene riservato il compito di “allevare buoni musulmani” – magari i “combattenti di domani” –offrendo loro al massimo un ruolo subordinato e marginale. È il tipo di lotta, la motivazione e l’ideologia del gruppo, a determinare il ruolo dei sessi sul campo di battaglia.
In generale, il fenomeno degli attacchi suicidi femminili è conseguenza di differenti fattori difficili da classificare in categorie stagne: la perdita di un caro a causa del conflitto, l’allontanamento dalla propria comunità, l’umiliazione e i soprusi utilizzati come arma psicologica, lo stress che ne deriva, la depressione, il desiderio di riscatto o vendetta, ma anche le violenze sessuali, gli effetti di droghe e stupefacenti, sino all’influenza indiretta di messaggi mediatici.
I 749 attentati suicidi registrati in Afghanistan dal 2001 a oggi hanno visto come protagonisti quasi esclusivamente individui di sesso maschile; due sole donne – più il caso di un’anziana arrestata durante il trasporto di un giubbetto esplosivo “non attivo” nel 2007 – hanno preso parte a un attacco di questa tipologia. Sono le due eccezioni alla norma.
Alla luce dell’esperienza vissuta in quella fantastica e terribile terra che è l’Afghanistan e di quanto ho avuto modo di carpire dalla realtà locale, ritengo che il fenomeno non abbia interessato la guerra afghana poiché tale conflitto non presentava sino a un paio di anni fa le connotazioni tipiche della lotta di liberazione nazionale dove le donne, al fianco degli uomini, partecipano alle “cose della guerra”.
Sebbene sinora il mancato riconoscimento dell’identità di donna – declassata spesso a strumento di procreazione – trovi dimostrazione in episodi e scelte politiche che mai avrebbero consentito a un soggetto femminile di aspirare al titolo di “martire”, oggi si possono intravvedere alcune condizioni favorevoli a un cambio di tendenza. Nonostante nelle aree sotto il controllo dei taliban la condizione della donna stia peggiorando sempre più e prosegua la crociata contro l’emancipazione femminile, si stanno registrando alcuni episodi di reclutamento di donne per azioni militari. Seppure i fatti stiano a dimostrare quanto poco valga la donna per i taliban, che mai ne farebbero una “combattente” di una guerra ideologica – dal momento che la stessa ideologia di riferimento nega alle donne anche solamente il diritto all‘identità – due donne hanno preso parte, dall’inizio del conflitto a oggi, ad azioni suicide contro le forze di sicurezza internazionali.
Oggi le cose sono dunque cambiate. I taliban insistono sul concetto di lotta di liberazione dell’Afghanistan, e la violenta offensiva insurrezionale richiede ogni giorno che passa più “martiri” da impiegare sul campo di battaglia. Ma è davvero così? Sul serio i taliban hanno accettato le donne tra le fila dei combattenti mujaheddin? E le donne accorrono numerose nei centri di reclutamento taliban? La risposta è no.
I cambiamenti politici avvenuti in Afghanistan negli ultimi venti anni hanno rappresentato, per le donne, un continuum di mutamenti circa il loro status e la loro posizione nella società. Negli anni Ottanta, il regime marxista (laico e secolarizzato) ha tentato di annullare, nella società tribale afghana, il principio patriarcale della famiglia. Ciò ha portato a reazioni violente e a un distacco irreparabile tra società e governo.
Dalla metà degli anni Novanta, la politica verso le donne è cambiata in modo sostanziale, con l’esclusione della partecipazione femminile dagli uffici pubblici e dall’ambito professionale; il regime taliban, a partire dal 1996, le ha obbligate ad allontanarsi visibilmente dalla società e ciò ha indotto alcune di loro a organizzarsi clandestinamente al fine di provvedere all’istruzione. Soltanto la cacciata dei taliban ha consentito un timido miglioramento della condizione femminile; ma per quanto tale condizione sia esclusiva delle realtà urbane, è pur sempre un risultato positivo che dovrebbe indurre la componente femminile a combattere per mantenere il “diritto di essere donna” piuttosto che scegliere di morire per dovervi rinunciare. I casi di suicidio femminile – e non di attacchi-suicidi – in Afghanistan hanno toccato livelli elevatissimi, tra i più alti del mondo, ma in tutti i casi registrati la motivazione è quella di una condizione di vita “al femminile” insoddisfacente, frustrante e senza via d’uscita: una condizione frutto della consuetudine. Anche il suicidio può essere un elemento di rottura, una sorta di reazione alla subordinazione assoluta al padre, prima, e al marito, per il resto della vita. E il suicidio è un grave peccato nell’Islam. Uccidendo se stesse le donne, non solo ottengono da sé una particolare forma di “libertà”, ma offendono – di fronte alla comunità – anche chi le ha maltrattate e umiliate.
È dunque il desiderio di libertà ad aver spinto le due donne afghane a morire per la causa taliban? Difficile crederlo. Non è una lodevole azione di lotta per la liberazione del proprio paese e per la difesa della propria cultura quella che vede l’impiego delle donne negli attacchi suicidi in Afghanistan. È più facile ritenere che si tratti di donne disperate, senza famiglia, «senza più onore»; donne che, avendo perso tutto, accettano di morire abbandonando i resti dei propri corpi nudi alla mercé di occhi profanatori e irrispettosi. No, non sono le donne afghane a farsi esplodere, sono i sottoprodotti della guerra, gli scarti di una società di cui sentono di non appartenere più.
5 giugno 2011